LA PERSONA AL CENTRO
DELLA CURA: QUANDO LA MALATTIA DIVIENE RISORSA PER LA COMUNITA’
Da alcuni
anni ci si confronta sempre più con un contesto socio-assistenziale e
socio-sanitario nel suo insieme districato e complesso. In tal senso il
mutamento demografico, il progressivo invecchiamento della popolazione,
l’incremento delle patologie cronico-degenerative, le innovazioni tecnologiche,
diagnostiche e terapeutiche, le moderne disposizioni normative in rio ferimento
all’organizzazione sanitaria e le skill mix delle professioni sanitarie sono
solo alcuni dei fattori determinanti che rappresentano gli elementi chiave del
profondo e rapido cambiamentcui la società in ambsocio-sanitario e
assistenziale è andata in contro negli ultimi anni. Gli studiosi del settore
hanno definito questi fenomeni “epocali”, perché hanno modificato
radicalmente i bisogni delle persone i quali delineando esigenze che richiedono
ancora una revisione delle sottese logiche al governo del sistema
sociosanitario. Dinanzi a questo mutamento repentino del contesto sociale e demografico,
la cui evoluzione è ben lungi dal dirsi ultimata, le organizzazioni sono
invitate ad avviare un processo di trasformazione radicale dell’offerta dei
servizi, col fine ultimo di poter offrire risposte adeguate alle innumerevoli
ed innovative cure ad oggi conosciute. Ed è proprio questo uno dei temi
centrali che affronteremmo in questo lavoro: quello della “cura” e in particolare
del ruolo che i servizi ricoprono in tal senso. Perché queste possano essere
realizzate sono necessarie politiche progettuali ed organizzative capaci di
ridisegnare i percorsi di cura. In tal senso si intende porre l’attenzione al
tema che intende mettere il soggetto al centro del “sistema salute”, tenendo
conto di tutta la sua irinuciabile complessità. In tal senso, è fondamentale
non solo organizzare servizi idonei affinché la persona sia sempre al centro degli
interventi terapeutici, ma anche porre ulteriormente attenzione sul tema della centralità
del paziente il quale è considerato soggetto attivo, partecipe in
quanto parte attiva del suo stesso percorso di cura. L’obiettivo finale
di questa riorganizzazione è assicurare una qualità delle cure più elevata,
efficiente e personalizzata, rimuovendo tutte le eventuali variabili che
potrebbero ostacolare il processo di cura. In altri termini le cura non solo
dovrebbero essere eque, ma accessibili a tutti coloro che le richiedono. In
questo caso, si parla dunque di una cura libera, in cui tutti possono accedervi
allo stesso modo, senza dover ricorrere a spese (fatte di tasca propria) per aderire
a servizi che dovrebbero salvaguardare al meglio la propria salute, tenendo
conto anche del fatto che dovrebbero essere più adeguate alle esigenze dei
pazienti. Ed è qui che le domande sorgono spontanee:
- ma infondo cosa significa prendersi
cura dell’altro?
- Siamo
sicuri che quello che noi riteniamo una cura idonea per la persona sia
veramente consona al suo modo di interpretare la realtà cirostante e quindi
anche la vita?
- E ancora, quando questo non è
in conformità col ‘prendersi cura’ della persona come è bene agire per
salvaguardare la sua autodeterminazione e di conseguenza la sua piena libertà
sulla salute? Quando è bene occuparsi, in quanto servizi, del “ben-essere”
tutelandolo in tutti i modi e quando invece è giusto e necessario lasciare i
soggetti liberi di scegliere cosa fare della propria salute?
Questi sono solo alcuni dei
dilemmi etici e quindi interrogativi che sempre più sorgono spontanei fra gli
studiosi che si occupano delle scienze sociali. L’idea di base è quella di
andare oltre l’approccio paternalistico del sistema sanitario, ma piuttosto avvicinarci
sempre più ad uno più umanistico, nel quale ci si incentra non più solo sul
benessere fisico, ma ci si sofferma anche su quelli che sono i bisogni e le
esigenze delle persone che, in quanto tali, chiedono, anzi esigono, d’essere
ascoltate anche all’interno dei servizi socio-assistenziali. Non è un caso che
si parli sempre più di “medicina narrativa”, la quale si sofferma sul peso che
hanno le narrazioni all’interno dei processi terapeutici, in uno scambio
continuo di relazioni che permettono di ottenere una negoziazione di
significati. In questo modo medico e paziente si trovano in un sistema più
ampio di narrazioni che generando una co-costruzione narrativa di una
storia di cura. In altre parole, tale modello di cura, permette di sviluppare
un percorso terapeutico individualizzato, basto sulle personali esigenze del
paziente, le quali nascono non solo da bisogni concreti e tangibili, ma anche e
soprattutto, da una storia personale, emotiva e relazionale che, nel suo
complesso è unica e rara. Questa storia è formata da narrazioni che devono
essere tenute in considerazione per un adeguato miglioramento delle condizioni
di vita del paziente. Il soggetto coinvolto diventa dunque co-costrutore di
questa nuova storia: non la subisce, ma collabora attivamente nel processo di
cura, sviluppando di conseguenza maggiore empowerment. La storia di malattia
per il paziente è importante paziente perché gli permette di dare un senso e un
significato al dolore e alla sofferenza che sta vivendo, ma lo è anche per il
medico e per la relazione di cura. Il medico non si limita a trattare la
malattia biologica (disease) come se fosse una macchina da riparare, ma deve
tenere in considerazione anche la malattia come vissuto personale (illness) e i
suoi correlati sociali (sickness). Soltanto in una prospettiva
bio-psico-sociale la medicina può svolgere adeguatamente il suo ruolo, per
questa ragione, le storie rappresentano uno strumento imprescindibile, eccezionale
e irrinunciabile per prendersi cura prima di tutto della persona e successivamente
della malattia come parte integrante del soggetto e non come elemento esterno,
discostato dalla storia di chi la possiede.
Quanto fin qui espresso intende
sottolineare l’importanza del paziente, del suo punto di vista, il quale non
solo vuole essere considerato parte attiva della cura, ma intende scegliere con
consapevolezza quella che è la terapia più vicina alla sua condizione. Intende
inoltre confrontarsi su quelli che sono
i suoi pensieri, le sue considerazioni, in merito al percorso che si vuole intraprendere.
Un percorso in cui anche il “cuore” non deve essere ignorato, ma anzi
ascoltato, compreso e considerato, perché d’innanzi al dolore fisico e psichico
bisogna essere umili e rispettosi, capaci di evitare ogni paternalistico giudizio
o inutile critica, le quali non fanno altro che peggiorare la situazione. In
altri termini, quello che emerge in maniera riddondante è il fatto di tenere
conto del punto di vista del paziente, considerando anche quelli che sono i
suoi punti di vista che, per quanto possano essere discutibili, sono comunque
fondamentali, perché il sapere della persona, soggetto attivo dei processi di
cura, dev’essere aspetto centrale nel tutelare la salute. Ciò risulta
essenziale perché tale sapere dei soggetti convolti non può non essere
considerato, rinegato, trascurato. Deve essere considerato parte integrante dei
percorsi terapeutici. In altre parole, il percorso di cura è composto dal
sapere professionale dell’operatore e dall’esperienza tangibile e concreta del
soggetto stesso, il quale è l’unico vero conoscitore della propria condizione.
Lui conosce gli effetti della patologia e, se ascoltato fino in fondo, potrebbe
essere il primo a indicare le terapie idonee, più vicine alle proprie esigenze.
Per queste ragioni, l’operatore, non può esigere da questo sapere, ma anzi,
deve tenerne conto, valuando il dafarsi sulla base di più saperi. Solo così si
può realizzare una presa in carico globale, nel quale si tiene conto, non solo
delle sue condizioni sanitarie, ma anche e soprattutto di quelle sociali e
psicologiche derivanti anche dal contesto in cui si vive.
Tener conto del sapere
esperienziale delle persone è il primo passo, quello decisivo perché, se
considerato come “risorsa”, può essere utile per chi ha riscontrato difficoltà/problematiche
simili. In questo modo, quel sapere, se condiviso, diviene strumento di cura
per gli operatori stessi, ma anche per comuni cittadini, i quali mettono in
circolo saperi che possono condizionare il ben-essere di intere comunità
locali. In questo modo ciò che prima veniva considerata una “fragilità”, si
incomincia a vederla come una “risorsa/potenzialità”. In un certo senso, il
sapere delle persone che hanno già attraversato la sofferenza e il dolore,
viene condiviso all’interno delle comunità locali attraverso le reti dell’auto
aiuto. Questo avviene attraverso la condivisione dei saperi acquisiti
attraverso la stessa esperienza che, nel momento in cui viene portata a
conoscenza di altri, diviene bene comune per l’intera popolazione. In altre
parole, quella fragilità è il motore stesso per la promozione di un cambiamento
individuale, ma anche globale. Questo perché le scelte di ciascuno impattano
pesantemente non solo sulle vite delle singole persone, ma anche su quelle dei
gruppi e di conseguenza delle comunità locali. Ciò ci permette di comprendere
quanto stare bene, non ha un impatto incisivo solo sollo sulla nostra vita, ma
anche su quella degli altri. Per questa ragione abbiamo tutti la responsabilità
di prenderci cura della nostra salute, perché se ci curiamo di noi stessi, in
un certo senso, miglioriamo anche la salute delle persone che ci stanno attorno
oltre che dell’intero ecosistema in cui viviamo. Perché infondo se facciamo del
bene a noi stessi, facciamo bene a tutti.
Questo modo di prendersi cura
delle persone, basato su un sapere più ampio, capace di andare oltre il sapere
delle scienze sociali e sanitarie, è basato su un approccio ben specifico, dal
nome Approccio Ecologico-Sociale, il quale ha come obiettivo principe quello di
promuovere il cambiamento degli stili di vita all’interno dell’intera comunità.
Perché ciò si verifichi, è però necessario un cambiamento nelle singole vite,
le quali col passare del tempo che porteranno successivamente al cambiamento
dell’intera comunità e quindi, della società in cui si vive.
Stare bene significa dunque
sentirsi in armonia con sé stessi e con le persone che le circondano,
sentendosi accettati, compresi e accolti all’interno della comunità in cui si
vive cercando di sentirsi a proprio agio, trovando anche stimolo per una
propria crescita personale; confrontandosi così con le proprie fragilità
presenti e passate. Ciò permette di apprendere che il passato è stato sì
negativo, ma che può essere trasformato in positivo, in risorsa per noi stessi,
in primis, ma anche per l’intera comunità. Di fatto se non si fossero passati momenti
difficili e complicati non si sarebbe potuto possedere lo stesso sapere
esperienziale. Inoltre, stare bene, non è visto solo dal punto di vista della
vita quotidiana, ma anche attraverso lo svolgimento di attività lavorative e
socio-ricreative che ci permettono di effettuare una vita gratificante e
appagante. Stare bene vuol dire anche ricercare un equilibrio fisico e mentale.
Confermando in tal modo quella che è la definizione dell’OMS, la quale
considera il ben-essere come l’equilibrio di queste tre componenti (componente
biologica, psicologica e sociale) che permettono di raggiungere un’armonia, non
solo con se stessi, ma anche con tutto ciò che ci circonda.
Perché ciò si possa attuare si
ritiene fondamentale ricordare che ciascuno di noi può fare qualcosa, affinché
possa migliorare la vita di tutti. Perché questo si verifichi bisognerebbe
frequentare contesti dell’auto aiuto, in cui incontrare persone che vivono
esperienze simili e, proprio per questo, sono predisposte a condividere la
propria esperienza. In questo modo la persona ha la possibilità di mettersi in
gioco, cercando sempre più di migliorare la propria condizione di vita. Naturalmente,
chi partecipa all’interno delle reti dell’auto aiuto, si mette in gioco nella
misura in cui se la sente, con i propri tempi, le proprie esperienze e con le proprie
risorse/potenzialità. Inoltre, bisognerebbe essere sempre consapevoli delle
proprie scelte e, in questa misura, riuscire a modificare quei comportamenti che
ci fanno tanto male e che non aiutano a stare bene. è fondamentale inoltre
riconoscere di avere una fragilità/un problema, accettarla, incominciando a
lavorarci affinché si possano modificare determinati comportamenti. Perché ciò
abbia un effetto sulla comunità è fondamentale portare la propria
testimonianza, riconoscendo il valore del proprio sapere esperienziale,
condividerlo, all’interno delle reti dell’auto aiuto e portare avanti attività
di sensibilizzazione e promozione della salute, affinché si possano promuovere
stili di vita migliori, più vicini a quello che è l’approccio
ecologico-sociale. Un approccio in cui ci si auspica di offrire una serie di
servizi del privato sociale, diffusi capillarmente sul territorio,
permettendo così da un lato di aiutare le persone a portare avanti in maniera
costante il proprio percorso di cambiamento, dall’altra, di diffondere in
maniera capillare stili di vita più idonei alla promozione della salute. In tal
senso avere una rete consolidata sul territorio aiuta a soddisfare i bisogni di
tutti, anche di quelli che si farebbe più fatica a raggiungere, promuovendo
così un ben-essere collettivo, capace non solo di coinvolgere i singoli
cittadini, ma anche le famiglie e le comunità locali, le quali vengono considerate luogo di promozione
della salute. Questo si riesce ad applicare nel momento in cui la rete dei
servizi socio-sanitari pubblici e del privato sociale, assieme alle comunità
sociali, alle famiglie e alle assieme alla famiglia e al soggetto, riesce a
operare in sinergia co-progettando interventi mirati alla promozione della
salute pubblica.
In
altri termini. L’approccio ecologico-sociale consiste
nel sentirsi assieme in una grande Arca, dove ciascuno esiste in quanto
esistono gli altri; dove ciascuno è un po’ responsabile per tutti e tutti sono
responsabili per ciascuno; dove l’indifferenza e l’egoismo, ma anche la
solitudine, la mancanza di emozioni e di valori, sono i nostri peggiori nemici.
Un’Arca dove quello che accade al singolo accade anche all’altro, dove il
cambiamento esiste se c’quello del singolo, dove nessuno è un’isola, ma un’arca
potente e unita, in cui vige la fiducia reciproca e la speranza per un mondo
migliore, in cui ciascuno si assume la propria responsabilità per farsi che la
salute, il stare bene, diventi “bene comune” appartenente non solo ai
singoli cittadini, ma anche alle comunità locali. Di quell’Arca la Spiritualità
antropologica è la più compiuta rappresentazione, il più forte dei richiami ai
grandi valori che accompagnano il nostro essere uomini: la pace, la solidarietà,
l’amicizia, l’amore. Valori che nulla hanno a che spartire con la retorica
delle frasi fatte, ma che ci accompagnano, se lo vogliamo, nella concretezza
del quotidiano. Un quotidiano che parte dalle persone, percorre i rapporti
nella famiglia, col vicino, con l’amico, con lo sconosciuto che attraversa la stessa
strada verso cui tutti siamo diretti: quello del ben-essere di ciascun essere
vivente dal più piccole insignificante,
al più grande e dominante. La spiritualità antropologica vive nella radice più
profonda dell’uomo, di tutti gli uomini: Vive del sogno possibile che questo
pianeta, oggi e soprattutto domani, diventi più libero, rispettato e ascoltato,
in primis per noi stessi, ma anche per i nostri figli, perché tutti i figli in
ogni angolo del mondo, sono anche nostri. E di tutti i sogni possibili questo è
sicuramente il più grande, il più importante, il più sperato se mai possibile
da realizzare.
Gli attori
sanitari, in tutto questo, sono pertanto chiamati a garantire attraverso le
loro decisioni strategico-operative, un’assistenza che tenga conto dei bisogni
espressi da una popolazione sempre più anziana e con maggiore aspettativa di
vita, offrendone in questo modo, una risposta adeguata alle sue esigenze, senza
dimenticarsi che anche i tempi e le modalità in cui vengono erogate le
prestazioni ha un peso non indifferente. Perché un sistema innovativo possa
svilupparsi è fondamentale tenere conto anche delle risorse economiche in cui
il Sistema Sanitario Nazionale si trova. In altre parole, perché questi
interventi si possano attuare è necessario investirci non solo dal punto di
vista organizzativo, ma anche politico e gestionale. Non è infatti un caso che
le limitate risorse finanziarie non facilitino l’innovazione e la
sperimentazione di nuovi modelli che, se adeguatamente applicati, potrebbero
condurre al miglioramento del processo terapeutico auspicato, ottimizzandone
così anche le risorse disponibili. In tal senso, gli ospedali tradizionali, i
quali sono ancora ingessati attorno al sapere medico e compartimentati dalle
settorializzazioni delle specialità scientifiche, non sembrano più adeguate
alle affioranti e evolute necessità assistenziali. In altri termini, è evidente
che il SSN debba sempre più andare in una direzione opposta, tenendo conto di
tutti i bisogni sociali e assistenziali della persona secondo una visione
olistica. Tale visione consiste nel tener conto della persona/paziente a trecentosessanta
gradi, tenendo conto non solo della salute fisica, ma anche psicologica,
sociale, famigliare, relazionale nonché lavorativa economica e socio-ricreativa.
In un certo senso, quest’approccio, tiene conto di ogni aspetto della vita,
considerando qualsiasi elemento significativo per il percorso di cura. Per
queste ragioni, le tradizionali modalità di presa in carico del paziente, dettate
dalla prassi medica e assistenziale, si rivelano insufficienti a rispondere efficacemente
al cambiamento delle esigenze sanitarie e assistenziali del paziente. Affinché
questo si possa attuare si sta incominciando a introdurre un modello operativo
denominato case mamege nel quale si offre un’assistenza personalizzata,
unica e globale. In tal senso è fondamentale recuperare la centralità del
paziente, organizando e ottimizzando l’assistenza sulla base delle sue
personali e specifiche necessità. Secondo questo modello di cura ciascun
paziente verrà indiriziato verso percorsi specifici, con riferimenti sanitari e
sociali differenziati, capaci di garantire cure adeguate, secondo
un’organizzazione che permette di offrire continuità terapeutica la quale
dev’essere parametrata secondo i propri personali bisogni. Per compiere idone
scielte in tal senso e offrire risposte ai bisogni del le persone è necessario discostarsi
dall’idea che l’ospedale sia luogo di mera cura e assistenza chiusa
o in sé
stesso, dove vige la netta separazione fra sani e malati, fra chi può accedere
alle cure e chi invece non rientra, fra chi può accedervi in tempi ragionevoli
e chi deve attendere mesi o anni per ottenere le risposte di cui ha bisogno. In
tal senso è fondamentale che il contesto ospedaliero venga riconsiderato come luogo
in cui il sistema di assistenza sia complesso e integrato, dove al centro del
percorso di cura vi è sempre la persona e le sue necessità, integrandosi in
questo modo al contesto territoriale e con la comunità locale; la quale,
spesso, possiede le risorse, derivanti dalle reti territoriali (formali e
informali), capaci di supportare adeguatamente la persona nel portare fino in
fondo le cure idonee alle sue necessità terapeutiche.
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