domenica 9 agosto 2020

La persona al centro della cura

 
LA PERSONA AL CENTRO DELLA CURA: QUANDO LA MALATTIA DIVIENE RISORSA PER LA COMUNITA’


Da alcuni anni ci si confronta sempre più con un contesto socio-assistenziale e socio-sanitario nel suo insieme districato e complesso. In tal senso il mutamento demografico, il progressivo invecchiamento della popolazione, l’incremento delle patologie cronico-degenerative, le innovazioni tecnologiche, diagnostiche e terapeutiche, le moderne disposizioni normative in rio ferimento all’organizzazione sanitaria e le skill mix delle professioni sanitarie sono solo alcuni dei fattori determinanti che rappresentano gli elementi chiave del profondo e rapido cambiamentcui la società in ambsocio-sanitario e assistenziale è andata in contro negli ultimi anni. Gli studiosi del settore hanno definito questi fenomeni “epocali”, perché hanno modificato radicalmente i bisogni delle persone i quali delineando esigenze che richiedono ancora una revisione delle sottese logiche al governo del sistema sociosanitario. Dinanzi a questo mutamento repentino del contesto sociale e demografico, la cui evoluzione è ben lungi dal dirsi ultimata, le organizzazioni sono invitate ad avviare un processo di trasformazione radicale dell’offerta dei servizi, col fine ultimo di poter offrire risposte adeguate alle innumerevoli ed innovative cure ad oggi conosciute. Ed è proprio questo uno dei temi centrali che affronteremmo in questo lavoro: quello della “cura” e in particolare del ruolo che i servizi ricoprono in tal senso. Perché queste possano essere realizzate sono necessarie politiche progettuali ed organizzative capaci di ridisegnare i percorsi di cura. In tal senso si intende porre l’attenzione al tema che intende mettere il soggetto al centro del “sistema salute”, tenendo conto di tutta la sua irinuciabile complessità. In tal senso, è fondamentale non solo organizzare servizi idonei affinché la persona sia sempre al centro degli interventi terapeutici, ma anche porre ulteriormente attenzione sul tema della centralità del paziente il quale è considerato soggetto attivo, partecipe in quanto parte attiva del suo stesso percorso di cura. L’obiettivo finale di questa riorganizzazione è assicurare una qualità delle cure più elevata, efficiente e personalizzata, rimuovendo tutte le eventuali variabili che potrebbero ostacolare il processo di cura. In altri termini le cura non solo dovrebbero essere eque, ma accessibili a tutti coloro che le richiedono. In questo caso, si parla dunque di una cura libera, in cui tutti possono accedervi allo stesso modo, senza dover ricorrere a spese (fatte di tasca propria) per aderire a servizi che dovrebbero salvaguardare al meglio la propria salute, tenendo conto anche del fatto che dovrebbero essere più adeguate alle esigenze dei pazienti. Ed è qui che le domande sorgono spontanee:
- ma infondo cosa significa prendersi cura dell’altro?
- Siamo sicuri che quello che noi riteniamo una cura idonea per la persona sia veramente consona al suo modo di interpretare la realtà cirostante e quindi anche la vita?
- E ancora, quando questo non è in conformità col ‘prendersi cura’ della persona come è bene agire per salvaguardare la sua autodeterminazione e di conseguenza la sua piena libertà sulla salute? Quando è bene occuparsi, in quanto servizi, del “ben-essere” tutelandolo in tutti i modi e quando invece è giusto e necessario lasciare i soggetti liberi di scegliere cosa fare della propria salute?      
Questi sono solo alcuni dei dilemmi etici e quindi interrogativi che sempre più sorgono spontanei fra gli studiosi che si occupano delle scienze sociali. L’idea di base è quella di andare oltre l’approccio paternalistico del sistema sanitario, ma piuttosto avvicinarci sempre più ad uno più umanistico, nel quale ci si incentra non più solo sul benessere fisico, ma ci si sofferma anche su quelli che sono i bisogni e le esigenze delle persone che, in quanto tali, chiedono, anzi esigono, d’essere ascoltate anche all’interno dei servizi socio-assistenziali. Non è un caso che si parli sempre più di “medicina narrativa”, la quale si sofferma sul peso che hanno le narrazioni all’interno dei processi terapeutici, in uno scambio continuo di relazioni che permettono di ottenere una negoziazione di significati. In questo modo medico e paziente si trovano in un sistema più ampio di narrazioni che generando una co-costruzione narrativa di una storia di cura. In altre parole, tale modello di cura, permette di sviluppare un percorso terapeutico individualizzato, basto sulle personali esigenze del paziente, le quali nascono non solo da bisogni concreti e tangibili, ma anche e soprattutto, da una storia personale, emotiva e relazionale che, nel suo complesso è unica e rara. Questa storia è formata da narrazioni che devono essere tenute in considerazione per un adeguato miglioramento delle condizioni di vita del paziente. Il soggetto coinvolto diventa dunque co-costrutore di questa nuova storia: non la subisce, ma collabora attivamente nel processo di cura, sviluppando di conseguenza maggiore empowerment. La storia di malattia per il paziente è importante paziente perché gli permette di dare un senso e un significato al dolore e alla sofferenza che sta vivendo, ma lo è anche per il medico e per la relazione di cura. Il medico non si limita a trattare la malattia biologica (disease) come se fosse una macchina da riparare, ma deve tenere in considerazione anche la malattia come vissuto personale (illness) e i suoi correlati sociali (sickness). Soltanto in una prospettiva bio-psico-sociale la medicina può svolgere adeguatamente il suo ruolo, per questa ragione, le storie rappresentano uno strumento imprescindibile, eccezionale e irrinunciabile per prendersi cura prima di tutto della persona e successivamente della malattia come parte integrante del soggetto e non come elemento esterno, discostato dalla storia di chi la possiede.
Quanto fin qui espresso intende sottolineare l’importanza del paziente, del suo punto di vista, il quale non solo vuole essere considerato parte attiva della cura, ma intende scegliere con consapevolezza quella che è la terapia più vicina alla sua condizione. Intende inoltre  confrontarsi su quelli che sono i suoi pensieri, le sue considerazioni, in merito al percorso che si vuole intraprendere. Un percorso in cui anche il “cuore” non deve essere ignorato, ma anzi ascoltato, compreso e considerato, perché d’innanzi al dolore fisico e psichico bisogna essere umili e rispettosi, capaci di evitare ogni paternalistico giudizio o inutile critica, le quali non fanno altro che peggiorare la situazione. In altri termini, quello che emerge in maniera riddondante è il fatto di tenere conto del punto di vista del paziente, considerando anche quelli che sono i suoi punti di vista che, per quanto possano essere discutibili, sono comunque fondamentali, perché il sapere della persona, soggetto attivo dei processi di cura, dev’essere aspetto centrale nel tutelare la salute. Ciò risulta essenziale perché tale sapere dei soggetti convolti non può non essere considerato, rinegato, trascurato. Deve essere considerato parte integrante dei percorsi terapeutici. In altre parole, il percorso di cura è composto dal sapere professionale dell’operatore e dall’esperienza tangibile e concreta del soggetto stesso, il quale è l’unico vero conoscitore della propria condizione. Lui conosce gli effetti della patologia e, se ascoltato fino in fondo, potrebbe essere il primo a indicare le terapie idonee, più vicine alle proprie esigenze. Per queste ragioni, l’operatore, non può esigere da questo sapere, ma anzi, deve tenerne conto, valuando il dafarsi sulla base di più saperi. Solo così si può realizzare una presa in carico globale, nel quale si tiene conto, non solo delle sue condizioni sanitarie, ma anche e soprattutto di quelle sociali e psicologiche derivanti anche dal contesto in cui si vive.
Tener conto del sapere esperienziale delle persone è il primo passo, quello decisivo perché, se considerato come “risorsa”, può essere utile per chi ha riscontrato difficoltà/problematiche simili. In questo modo, quel sapere, se condiviso, diviene strumento di cura per gli operatori stessi, ma anche per comuni cittadini, i quali mettono in circolo saperi che possono condizionare il ben-essere di intere comunità locali. In questo modo ciò che prima veniva considerata una “fragilità”, si incomincia a vederla come una “risorsa/potenzialità”. In un certo senso, il sapere delle persone che hanno già attraversato la sofferenza e il dolore, viene condiviso all’interno delle comunità locali attraverso le reti dell’auto aiuto. Questo avviene attraverso la condivisione dei saperi acquisiti attraverso la stessa esperienza che, nel momento in cui viene portata a conoscenza di altri, diviene bene comune per l’intera popolazione. In altre parole, quella fragilità è il motore stesso per la promozione di un cambiamento individuale, ma anche globale. Questo perché le scelte di ciascuno impattano pesantemente non solo sulle vite delle singole persone, ma anche su quelle dei gruppi e di conseguenza delle comunità locali. Ciò ci permette di comprendere quanto stare bene, non ha un impatto incisivo solo sollo sulla nostra vita, ma anche su quella degli altri. Per questa ragione abbiamo tutti la responsabilità di prenderci cura della nostra salute, perché se ci curiamo di noi stessi, in un certo senso, miglioriamo anche la salute delle persone che ci stanno attorno oltre che dell’intero ecosistema in cui viviamo. Perché infondo se facciamo del bene a noi stessi, facciamo bene a tutti.    
Questo modo di prendersi cura delle persone, basato su un sapere più ampio, capace di andare oltre il sapere delle scienze sociali e sanitarie, è basato su un approccio ben specifico, dal nome Approccio Ecologico-Sociale, il quale ha come obiettivo principe quello di promuovere il cambiamento degli stili di vita all’interno dell’intera comunità. Perché ciò si verifichi, è però necessario un cambiamento nelle singole vite, le quali col passare del tempo che porteranno successivamente al cambiamento dell’intera comunità e quindi, della società in cui si vive.
Stare bene significa dunque sentirsi in armonia con sé stessi e con le persone che le circondano, sentendosi accettati, compresi e accolti all’interno della comunità in cui si vive cercando di sentirsi a proprio agio, trovando anche stimolo per una propria crescita personale; confrontandosi così con le proprie fragilità presenti e passate. Ciò permette di apprendere che il passato è stato sì negativo, ma che può essere trasformato in positivo, in risorsa per noi stessi, in primis, ma anche per l’intera comunità. Di fatto se non si fossero passati momenti difficili e complicati non si sarebbe potuto possedere lo stesso sapere esperienziale. Inoltre, stare bene, non è visto solo dal punto di vista della vita quotidiana, ma anche attraverso lo svolgimento di attività lavorative e socio-ricreative che ci permettono di effettuare una vita gratificante e appagante. Stare bene vuol dire anche ricercare un equilibrio fisico e mentale. Confermando in tal modo quella che è la definizione dell’OMS, la quale considera il ben-essere come l’equilibrio di queste tre componenti (componente biologica, psicologica e sociale) che permettono di raggiungere un’armonia, non solo con se stessi, ma anche con tutto ciò che ci circonda.
Perché ciò si possa attuare si ritiene fondamentale ricordare che ciascuno di noi può fare qualcosa, affinché possa migliorare la vita di tutti. Perché questo si verifichi bisognerebbe frequentare contesti dell’auto aiuto, in cui incontrare persone che vivono esperienze simili e, proprio per questo, sono predisposte a condividere la propria esperienza. In questo modo la persona ha la possibilità di mettersi in gioco, cercando sempre più di migliorare la propria condizione di vita. Naturalmente, chi partecipa all’interno delle reti dell’auto aiuto, si mette in gioco nella misura in cui se la sente, con i propri tempi, le proprie esperienze e con le proprie risorse/potenzialità. Inoltre, bisognerebbe essere sempre consapevoli delle proprie scelte e, in questa misura, riuscire a modificare quei comportamenti che ci fanno tanto male e che non aiutano a stare bene. è fondamentale inoltre riconoscere di avere una fragilità/un problema, accettarla, incominciando a lavorarci affinché si possano modificare determinati comportamenti. Perché ciò abbia un effetto sulla comunità è fondamentale portare la propria testimonianza, riconoscendo il valore del proprio sapere esperienziale, condividerlo, all’interno delle reti dell’auto aiuto e portare avanti attività di sensibilizzazione e promozione della salute, affinché si possano promuovere stili di vita migliori, più vicini a quello che è l’approccio ecologico-sociale. Un approccio in cui ci si auspica di offrire una serie di servizi del privato sociale, diffusi capillarmente sul territorio, permettendo così da un lato di aiutare le persone a portare avanti in maniera costante il proprio percorso di cambiamento, dall’altra, di diffondere in maniera capillare stili di vita più idonei alla promozione della salute. In tal senso avere una rete consolidata sul territorio aiuta a soddisfare i bisogni di tutti, anche di quelli che si farebbe più fatica a raggiungere, promuovendo così un ben-essere collettivo, capace non solo di coinvolgere i singoli cittadini, ma anche le famiglie e le comunità locali, le quali vengono considerate luogo di promozione della salute. Questo si riesce ad applicare nel momento in cui la rete dei servizi socio-sanitari pubblici e del privato sociale, assieme alle comunità sociali, alle famiglie e alle assieme alla famiglia e al soggetto, riesce a operare in sinergia co-progettando interventi mirati alla promozione della salute pubblica. 
In altri termini. L’approccio ecologico-sociale consiste nel sentirsi assieme in una grande Arca, dove ciascuno esiste in quanto esistono gli altri; dove ciascuno è un po’ responsabile per tutti e tutti sono responsabili per ciascuno; dove l’indifferenza e l’egoismo, ma anche la solitudine, la mancanza di emozioni e di valori, sono i nostri peggiori nemici. Un’Arca dove quello che accade al singolo accade anche all’altro, dove il cambiamento esiste se c’quello del singolo, dove nessuno è un’isola, ma un’arca potente e unita, in cui vige la fiducia reciproca e la speranza per un mondo migliore, in cui ciascuno si assume la propria responsabilità per farsi che la salute, il stare bene, diventi “bene comune” appartenente non solo ai singoli cittadini, ma anche alle comunità locali. Di quell’Arca la Spiritualità antropologica è la più compiuta rappresentazione, il più forte dei richiami ai grandi valori che accompagnano il nostro essere uomini: la pace, la solidarietà, l’amicizia, l’amore. Valori che nulla hanno a che spartire con la retorica delle frasi fatte, ma che ci accompagnano, se lo vogliamo, nella concretezza del quotidiano. Un quotidiano che parte dalle persone, percorre i rapporti nella famiglia, col vicino, con l’amico, con lo sconosciuto che attraversa la stessa strada verso cui tutti siamo diretti: quello del ben-essere di ciascun essere vivente dal più piccole  insignificante, al più grande e dominante. La spiritualità antropologica vive nella radice più profonda dell’uomo, di tutti gli uomini: Vive del sogno possibile che questo pianeta, oggi e soprattutto domani, diventi più libero, rispettato e ascoltato, in primis per noi stessi, ma anche per i nostri figli, perché tutti i figli in ogni angolo del mondo, sono anche nostri. E di tutti i sogni possibili questo è sicuramente il più grande, il più importante, il più sperato se mai possibile da realizzare.
Gli attori sanitari, in tutto questo, sono pertanto chiamati a garantire attraverso le loro decisioni strategico-operative, un’assistenza che tenga conto dei bisogni espressi da una popolazione sempre più anziana e con maggiore aspettativa di vita, offrendone in questo modo, una risposta adeguata alle sue esigenze, senza dimenticarsi che anche i tempi e le modalità in cui vengono erogate le prestazioni ha un peso non indifferente. Perché un sistema innovativo possa svilupparsi è fondamentale tenere conto anche delle risorse economiche in cui il Sistema Sanitario Nazionale si trova. In altre parole, perché questi interventi si possano attuare è necessario investirci non solo dal punto di vista organizzativo, ma anche politico e gestionale. Non è infatti un caso che le limitate risorse finanziarie non facilitino l’innovazione e la sperimentazione di nuovi modelli che, se adeguatamente applicati, potrebbero condurre al miglioramento del processo terapeutico auspicato, ottimizzandone così anche le risorse disponibili. In tal senso, gli ospedali tradizionali, i quali sono ancora ingessati attorno al sapere medico e compartimentati dalle settorializzazioni delle specialità scientifiche, non sembrano più adeguate alle affioranti e evolute necessità assistenziali. In altri termini, è evidente che il SSN debba sempre più andare in una direzione opposta, tenendo conto di tutti i bisogni sociali e assistenziali della persona secondo una visione olistica. Tale visione consiste nel tener conto della persona/paziente a trecentosessanta gradi, tenendo conto non solo della salute fisica, ma anche psicologica, sociale, famigliare, relazionale nonché lavorativa economica e socio-ricreativa. In un certo senso, quest’approccio, tiene conto di ogni aspetto della vita, considerando qualsiasi elemento significativo per il percorso di cura. Per queste ragioni, le tradizionali modalità di presa in carico del paziente, dettate dalla prassi medica e assistenziale, si rivelano insufficienti a rispondere efficacemente al cambiamento delle esigenze sanitarie e assistenziali del paziente. Affinché questo si possa attuare si sta incominciando a introdurre un modello operativo denominato case mamege nel quale si offre un’assistenza personalizzata, unica e globale. In tal senso è fondamentale recuperare la centralità del paziente, organizando e ottimizzando l’assistenza sulla base delle sue personali e specifiche necessità. Secondo questo modello di cura ciascun paziente verrà indiriziato verso percorsi specifici, con riferimenti sanitari e sociali differenziati, capaci di garantire cure adeguate, secondo un’organizzazione che permette di offrire continuità terapeutica la quale dev’essere parametrata secondo i propri personali bisogni. Per compiere idone scielte in tal senso e offrire risposte ai bisogni del le persone è necessario discostarsi dall’idea che l’ospedale sia luogo di mera cura e assistenza chiusa
o in sé stesso, dove vige la netta separazione fra sani e malati, fra chi può accedere alle cure e chi invece non rientra, fra chi può accedervi in tempi ragionevoli e chi deve attendere mesi o anni per ottenere le risposte di cui ha bisogno. In tal senso è fondamentale che il contesto ospedaliero venga riconsiderato come luogo in cui il sistema di assistenza sia complesso e integrato, dove al centro del percorso di cura vi è sempre la persona e le sue necessità, integrandosi in questo modo al contesto territoriale e con la comunità locale; la quale, spesso, possiede le risorse, derivanti dalle reti territoriali (formali e informali), capaci di supportare adeguatamente la persona nel portare fino in fondo le cure idonee alle sue necessità terapeutiche.     
       




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