I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE: FRA SOLITUDINE E CONDIVISIONE
Il dolore che dilania chi soffre di un disturbo alimentare permette di riconoscere la propria sofferenza, potendo di conseguenza, trasformarlo in "risorsa", in potenzialità. In altri termini si impara ad andare sempre "oltre": oltre le parole, oltre i possibili giudizi, ma soprattutto, oltre gli stessi pregiudizi. Quelli che si aggirano in questi mondi: quelli dei disagi mentali, quelli delle malattie psichiatriche come quella presente nella realtà dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Una realtà ai più sconosciuta e inesplorata, nel quale non ci si sente mai compresi fino in fondo. Un mondo in cui si fa di tutto per sentirsi ascoltati, compresi e soprattutto accettati. In altre parole si chiede in tutti i modi di accoglierlo e comprenderlo quel grido di dolore. Lo stesso grido che si cerca di esprimere e manifestare attraverso il cibo e il corpo e che spesso risulta essere inascoltato dalla maggior parte della gente, anche dagli stessi professionisti: coloro che dinnanzi a una richiesta d’aiuto "fuori dagli schemi non sanno cercare, assieme alla persona, le risposte di cui si sente un disperato bisogno. Le stesse che non sembrano esistere di fronte a malesseri esistenziali così profondi. Mali dalle innumerevoli cause, la cui manifestazione è data da un dolore che risulta essere differente per ciascuno, anche perché ognuno vive la realtà in modo differente. Un dolore che si abbatte sul cuore di chi lo vive, sradicando la pace nei giorni, indipendentemente dal proprio peso. Inoltre, non è possibile comprendere fino in fondo, quanto un disturbo come questo incida sulla vita di una persona. Per questo motivo non si possono utilizzare come riferimento criteri diagnostici specifici e tangibili: queste patologie sono invisibili come i fattori da cui derivano. Per questo motivo, patologie come queste, devono essere affrontate differentemente a seconda dei sintomi manifesti.
Con questo scritto si intende perciò sensibilizzare anche chi vi è estraneo a questi mondi, a queste realtà così complesse. A titolo informativo vi basti sapere che il tasso di incidenza, soprattutto tra i più giovani, è in continua crescita. È altrettanto vero constatare quanto questi temi siano ancora troppo oscuri e nascosti nei contesti sociali in cui si vive e si cresce. Ciò risulta essere alquanto pericoloso perché in un mondo in cui i modelli predominanti sembrano essere quelli di "Magrezza", "perfezione", "superficialità", capaci di contribuire significativamente ad accentuare il senso di alienazione in cui sempre più si sta precipitando Modelli che sicuramente influenzano le scelte che si intraprendono nella vita quotidiana, ma non sono solo quelli a favorisce lo sviluppo di un disturbo del comportamento alimentare. Nella maggior parte dei casi i fattori per cui un DCA può svilupparsi sono molteplici, fra questi possiamo ricordare il contesto famigliare, sociale e relazionale, in cui si crescere Anche i traumi, le esperienze passate, significative e dolorose, sono fattori per cui la persona può sviluppare una patologia alimentare. Una malattia mentale dannatamente resistente e insidiosa, ma non inestirpabile; affinché tale guarigione si verifichi è necessario fornire aiuti adeguati, dove le persone vengono accolte per il "problema" anche quando le loro caratteristiche non corrispondono alla presa in carice, dove i tempi d’attesa rispondono alla gravità e all’urgenza della patologia e dove nessuno venga escluso dalla cura solo perché "normopeso" sottovalutando completamente l'impatto emotivo di queste patologie. In altri termini è fondamentale ACCOGLIERE la persona per quella che è e per il PESO della sua sofferenza e non secondo criteri diagnostici per specifici, perché, spesso anche chi non rientra nei criteri diagnostici del DSM-V (Manuale diagnostico di Disturbi Mentali) può vivere un disagio alimentare. Con questo non si intende sminuire la portata della psicopatologia mentale, nonché meno del lavoro svolto dalla psichiatria, bensì si intende sottolineare l’importanza di non lasciare nessuno in dietro, anche chi apparentemente sembra stare bene. Una considerazione importante, per chi soffre di patologie come queste che sono in grado di introdursi silenziosamente nelle menti delle persone, le quali spesso, sono rese più fragili, dal contesto sociale e ambientale in cui vivono. Ignari non si accorgono di come questi disturbi, rosicchiano lentamente le loro esistenze, stritola dole e fagocitandole come un pitone attorno alla sua preda. Per queste ragioni vogliamo raccontare per informare: questi sono mali, tanto insidiosi e annichilenti, nonché potenzialmente letali che però possono essere sconfitti. Coloro che soffre di queste malattie, sono prigionieri dei propri pensieri, emozioni e comportamenti. In altre parole sono prigionieri di sé stessi. è come se il loro “Io” fosse scisso in una parte sana ed una malata. Quest’ultima si impone con una volontà distorta, mettendo a tacere ogni emozione della controparte sana. Ed è così che la consapevolezza di sé, del proprio corpo, dei propri limiti, si dissolve sviluppando un senso di invincibilità e una tensione all’eterna perfezione, verso il superamento dei propri limiti, rappresentati dallo stesso corpo. Egli viene infatti attribuito da Platone come “tomba dell'anima allontanano il soggetto affetto del disturbo da una corretta percezione di sé, distorcendola al punto che tutto ciò che di sé vede riflesso nello specchio risulta essere "troppo": troppo grosso, troppo grasso, troppo goffo, troppo ingombrante. Facendo così la “verità distorta mette a tacere la sua controparte sana, imponendo alla propria vittima di tagliare, perfezionare, smussare, rimuovere e scarnificare ciò che eccede per poter finalmente essere perfetta e quindi accettata e degna d’essere amata. In virtù di tale necessità chi soffre di un DCA si chiude sempre più in sé stesso, rischiando sempre pi] di sentirsi solo. Tale solitudine, deriva da un lato dall'incapacità di molti nel comprendere i vissuti e le emozioni che si vivono quando si finisce nel vortice di queste patologie. dall’altro il bisogno di rispettare determinati schemi, dai quali non si può uscire, diventa un pretesto per rifiutare qualsiasi attività socializzante in cui vi ~ coinvolto il cibo.
Individuare le motivazioni di questo stato di solitudine, non è per niente facile, ma è il primo passo per affrontare il problema del "mangiare compulsivo La solitudine è dovuta a pensieri irrazionali che ci fanno credere di essere incapaci di gestire rapporti sociali. Queste situazioni si possono superare favorendo proprio gli incontri, le uscite e la partecipazione ad eventi collettivi, ponendo tuttavia molta attenzione nel lasciare spazio emotivo alla persona, in un processo guidato che eviti stress emotivo. è fondamentale riscoprire e toccare con mano che tutti siamo in grado di relazionarsi perché è una capacità insita nell’essere umano per quanto debilitato da un dolore che non conosce tregua. In altri casi la solitudine è data dal fatto che le relazioni che si instaurano sembrano non dare la possibilità o la fiducia di essere sé stessi regalando a chi sta vicino ciò che ci si porta dentro: il cuore. Si teme che esprimendo ciò che si vive, si possa essere mal giudicati dall’altro, in tal caso c'è alla base la paura o l’impossibilità di condividere le proprie emozioni. Pensieri come questi si possono superare allacciando amicizie con una o due persone, con cui aprirsi e toccare con mano che a volte la paura del giudizio può essere superata a poco a poco in un percorso condiviso che porta a riacquistare gradualmente fiducia in sé stessi. La solitudine che percepisce chi soffre di DCA non è quella dettata dal non stare insieme agli altri, bensì quella presente anche in mezzo alle persone, la quale fa sentire l’abissale vuoto che infiamma e sopprime lo stomaco. Un vuoto che si prende con se perfino le parole: quelle che silenziosamente logorano l’animo, segnando cicatrici indelebili nel cuore. La sofferenza che si vive, che va al di là dei sintomi stessi (cioè dalla percezione abnorme del corpo, dal fatto che si mangi una foglia di insalata, o 20 chili di pasta) appartiene così tanto da pensare che il proprio dolore è incomprensibile e, quindi inspiegabile, per chi vive assieme a chi soffre di DCA. Questa convinzione fa catapultare in un’altra dimensione interiore, ai più misteriosa e sconosciuta, nella quale nessuno può accedervi. In altri termini, chi soffre di mali così gravi e complessi, si ritrova da un lato a dover “nascondere” il cibo per poter “dar voce al sintomo; dall’altro attraverso il comportamento stesso, si cerca in tutti i modi di manifestare con chiarezza, attraverso il corpo, quanto ciò che si porta dentro faccia male. Apparentemente, quanto fin qui descritto, sembra essere contraddittorio quando in realtà non è proprio così, perché queste patologie hanno una logica tutta loro. Una logica difficile da esprimere a parole, perché quest’ultime spesso risultano essere insufficienti per spiegare il mare di emozioni che si porta dentro. Per poter comprendere fino in fondo il suo linguaggio (quello della malattia) si deve effettuare un percorso su sé stessi, capace di aiutare a comprendere con più chiarezza ciò che si sente, riuscendo così a dare un nome a tutto ciò che si vive: un gomitolo infinitamente ingarbugliato che, per un tempo indefinito, non permette di riconoscere e quindi di spiegare agli altri le sensazioni che il comportamento alimentare suscita. Tali percezioni riempiono così tanto da svuotare totalmente da tutto quel dolore capace di devastare gli animi di chiunque vive situazioni come quelle dei DC. Spesso gli effetti di questi comportamenti sono poco riconoscibili di primo acchito e questa è una delle ragioni per cui si sente un grande vuoto interiore. Da lì il passo è breve per sentire quella solitudine estremamente incomprensibile Per questa ragione si evita in tutti i modi di condividere ciò che si prova, un po' per vergogna, un po' perché ci si sente "folli", "matti", estremamente fuori dalle condotte comportamentali accettate dal contesto famigliare e sociale. Facendo così le persone intorno non possono sapere ciò che appartiene al cuore, possono solo immaginarlo, ma non conoscerlo, anche se è molto facile aspettarsi che lo comprendano, senza la necessità di comunicare con le parole. Per assurdo si pensa che gli altri debbano ASCOLTARE, capire, quando si è i primi a non riuscirci fino in fondo. In qualche modo, senza volerlo, OBBLIGHIAMO gli altri a capire da uno sguardo, o da un atteggiamento e, se ciò non si verifica, la rabbia e la frustrazione prendono il sopravento, alimentando così un circolo vizioso che non trova tregua. Questo perché nessuno, fra coloro a cui si vuole bene, riesce a capire fino in fondo ciò che si vive, arrivando persino a identificarsi con la malattia: pensando di essere la "malattia", dimenticando che si è prima di tutto persone e che in quanto tali non possono essere "il DISTURBO bensì ciò che si riesce a realizzare anche attraverso la sua presenza nella vita. In altri termini, ciò che siamo diventati grazie alla sua presenza nelle nostre esistenze.
Come già affermato ciò che logora maggiormente chi soffre di Disturbi Alimentari è il senso di solitudine e di incomprensione. Un senso di solitudine che col tempo è capace di schiacciare dentro, di opprimere sempre più l’animo, in definitiva, il cuore. Una solitudine densa che non abbandona nemmeno quando si è circondati da persone che cercano di comunicare. Si sente troppo spesso soli nel portare avanti punti di vista e prospettive del mondo nelle quali ci si sente isolati. È come combattere, apparentemente insieme, contro un nemico che si manifesta con forme diverse per ognuno: per chi non soffre del disturbo esso si confonde con una scelta o un’inclinazione della persona, la quale invece si trova a combattere ogni giorno per uscire dalla prigione che si porta dentro, nel tentativo continuo e spesso vano di esprimere un estremo bisogno d’aiuto. Così, per chi soffre di DCA, diventa difficile e doloroso costruire e mantenere buone relazioni umane, perché nel farlo si ci trova a scontrarsi quotidianamente con la "NON ACCETTAZIONE" da parte di sé stessi e di ciò che si è veramente, prima ancora che con quella da parte degli altri. Ulteriormente chi si confronta con la realtà di chi soffre si trova in difficoltà quando si accorge del fatto che chi soffre di Disturbi Alimentari tende a identificarsi col disturbo stesso e può pensare che la persona si sia arresa e non desideri cambiare la situazione: un’ulteriore incomprensione che si aggiunge alle tante, determinando distanza e solitudine. Proprio per questo motivo è di fondamentale importanza il lavoro terapeutico condiviso in équipe nel quale vi è al centro la famiglia, le persone care vicine al paziente e il soggetto stesso il quale deve essere considerato parte attiva dello stesso percorso terapeutico. Nello stesso percorso è di fondamentale importanza il coinvolgimento diretto della persona, la quale deve essere informata sulle scelte intraprese al fine di costruire un percorso di cura condiviso. Il sostegno che arriva dai medici, dalle persone che vivono o hanno vissuto, la stessa condizione, dalla famiglia e dagli amici può essere la chiave di volta per guarire dai disturbi del comportamento alimentare: un problema semplice, ma di una sfida estremamente ardua che si può e si deve vincere per vivere al meglio la propria vita. In fondo guarire vuol dire non aver più bisogno di manomettere il proprio rapporto con il cibo e con il corpo. Un rapporto che perdurerà per molto tempo e Fino a quando si frapporrà qualcosa tra il paziente, il cibo e il corpo, fino a quando le paure, le angosce, i fantasmi, continueranno ad inquinare, a ingabbiare, la libertà di mangiare o di apparire, non può esserci guarigione. Questo al di là di ogni peso immaginabile, al di là di ogni abitudine alimentare. In altri termini, guarire significa non essere più costretti a ricorrere al cibo per assecondare le proprie aspettative di perfezione. Significa non dover più fustigare il proprio corpo per lenire le proprie colpe (chissà poi per quale reato commesso). Guarire significa essere liberi di entrare in risonanza con la propria anima, con la propria umana essenza, senza sentirsi troppo giudicati o in balia dello sguardo altrui. Guarire, significa dunque, liberarsi da tutti gli schemi comportamentali che ci fanno soffrire, potendo così raggiungere un rapporto sereno ed equilibrato nei confronti del corpo e del cibo. Guarire, infine, significa anche vivere le esperienze del quotidiano non solo come elemento minaccioso per il nostro equilibrio emotivo; bensì come parte integrante della nostra personalità. In altre parole, questi stati emotivi, non vengono più considerati minacciosi per la nostra salute psicofisica; piuttosto come fattori essenziali per entrare in contatto con la parte più profonda di sé: sé stessi.
Per far sì che la persona guarisca è fondamentale usufruire degli aiuti adeguatiI checonsistonoo , nel sostenere la persona a esprimere tutto ciò che la fa stare male. A tal proposito,uscirda unnDCAD non è impossibile, sebbene sia molto, molto faticoso, perché si deve cercare di trovare un equilibrio pergestire lepropriee emozionite. Questo però non significa che non bisogna impegnarsi per trovarel'equilibrio cheefaa alcaso proprio;;ma, non bisogna nemmeno pensare che è possibile uscirne da soli. È infatti necessario farsi aiutare da persone professionalmente preparae competenti,, capaci di comprendere e ascoltare le esigenze della persona che deve essere partecipe e attiva nel percorso di cura. In questi casi il lavoro in équipe è fondamentale e funzionale ai fini della cura. Solitamente in queste situazioni i professionisti a cui la personasi rivolgee e si affida, sono lo psicologo, lo psichiatra e un professionista della nutrizione,il dietologooo (questi sonoi più] importanti).Perr far sì che questo metododi lavoroosia efficace,, è necessario che i professionisti collaborino in maniera coesa e sinergica.E'’ inoltrenecessarior o che abbiano protocolli comuni da seguire, ma anche che facciano parte di un unico servizio: quello dei Disturbi del ComportamentoAlimentari. Servizi, che devono essere facilmente reperibili e presenti nelpercorso teraputico,,i qualiipossonoò presentare continui e repentinicambi d'orizzonte.. È inoltre fondamentale lavorare affinché, la rete dei servizisul territoriooo dedicati ai pazienti con DCA,sia capillarmentee presente e attivo nella lotta contro queste patologi
è inoltre fondamentale lavorare sulla prevenzione attraverso attività condivise sul territorio di sensibilizzazione. A titolo esemplificativo possiamo citare la sensibilizzazione nelle scuole, nelle quali è fondamentale ar conoscere non solo la presenza di disturbi come questi, ma anche i servizi che s i occupano di aiutare chi né soffre. Inoltre sensibilizzare, diviene un alto modo, un altro strategia per aiutare le persone più fragili ad aprirsi e se lo ritengono necessario chiedere aiuto. Per questa ragione p
Parlare dei propri problemi non è mai semplice, ancora meno, se il percorso di guarigione dalla condizione problematica non si è ancora concluso. Ed è proprio per questo che credo nel fatto che condividere con altri le nostre difficoltà, sia un'opportunità per trovare delle strategie di auto miglioramento. Sono sicura di quanto questo possa essere utile per tutti, per far conoscere agli altri quelli che sono gli effetti devastanti che questo disturbo provoca sul nostro corpo e sulla nostra mente. Penso che questo sia fondamentale, per è la chiave per poter incominciare quel lungo percorso di cambiamento, che si spera, possa aiutare a fuoriuscire dagli schemi del disturbo alimentare Ciò naturalmente non è assolutamente facile, anzi, spesso fa un male non indifferente, perché ci si confronta con il proprio passato e con ciò che ha fatto particolarmente soffrire. Tale difficoltà non riguarda solo il trattamento del disturbo dal punto di vista clinico, ma anche di quanto quest'ultimo sia ancora poco conosciuto e subdolo, proprio perché le dinamiche che comporta sono complesse; ed è per questo che si fa fatica a provvedere a cure idonee alle esigenze della persona. La difficoltà di trattarlo fa sì che egli possa continuare la sua devastante e silenziosa azione nella vita di molte persone. Questo perché il disturbo da un lato le rassicura e dall’altro le attanaglia Per questa ragione la sua individuazione può risultare alquanto complicata e, perché queste patologie vengano conosciute all’interno delle comunità locali, è necessario la realizzazione e diffusione di gruppi di auto-aiuto che si sostengono in maniera capillare sul territorio. La formazione di reti formali e informali non solo permette di sostenere le persone che soffrono di questi disturbi, ma da anche la possibilità di informare e di conseguenza formare la popolazione in merito a queste situazioni problematiche. Un altro modo per sensibilizzare è quello di diffondere la conoscenza dei DCA all’interno delle scuole e di tutti quei servizi pubblici e privati frequentati dai giovani. In questo modo non solo si sensibilizza le persone su quelli che sono gli effetti devastanti che queste patologie hanno sulla vita delle persone, ma si da la possibilità di conoscere le realtà che trattano e curano i disturbi alimentari. In altri termini, far conoscere realtà come queste, permette in un certo senso, di effettuare adeguate riflessioni sulle strategie di fronteggiamento, ma è anche l’occasione per realizzare adeguati spazi di condivisione in cui le persone possono reciprocamente sostenersi. Questo fa capire che più il problema emerge, più si hanno le risorse per poterlo affrontare, non solo con l’aiuto dei professionisti ma anche attraverso le reti del privato sociale. Reti che se diffuse capillarmente sul territorio permettono di raggiungere più persone possibili che soffrono di malattie come queste. Lavorare in stretta sinergia fra i servizi pubblici, il privato sociale e i singoli cittadini, permette di raggiungere un numero di persone maggiore, impedendo in questo modo di farle sentire sole e abbandonate a sé stesse. Quanto descritto è un metodo di lavoro che se portato avanti in maniera sistematica, coesa e sinergica con tutti i soggetti coinvolti permettendo così di mantenere al centro i bisogni della persona, rendendola attiva e partecipe in tutto il percorso di cura. In altre parole, questo approccio quello di Popolazione, permette all’intera comunità locale di far fronte a a queste fragilità considerandole non più solo dei singoli soggetti, ma di tutti (Beni Comuni), motivo per cui devono essere affrontati insieme ai cittadini. Fare rete fra le istituzioni pubbliche, quelle private e i comuni cittadini, è la strategia che bisognerebbe portare avanti sempre più nel futuro dei servizi socio sanitari e socio assistenziali indipendentemente dalla fragilità che si intende trattare. Al lavoro di rete e di comunità, va aggiunta la collaborazione delle reti dell’auto aiuto. Ed è in quest’occasione che si mette in pratica il così detto "Sapere Esperienziale" che aggiunto a quello professionale permette di realizzare servizi al pari dell esigenze delle persone. In altre parole, questi due saperi se integrati fra di loro, permettono di far sentire la persona compresa e ascoltata da un lato soddisfano le sue esigenze emotive; dall’altro rassicurano il professionista, che si può occupare della condizione clinica. Lavorare in questo modo permette di soddisfare in maniera più globale i bisogni e le esigenze delle persone che si rivolgono a un determinato servizio.
Il sapere esperienziale è considerato la base per promuovere "ben-essere" all’interno delle comunità di appartenenza, un approccio sviluppato fra la seconda metà degli anni '70 e degli anni 80. Esso è definito dalle scienze sociali col nome di "Recovery".
L’assunto di base del concetto di Recovery è il seguente: non si deve più dare per scontato che chi imposta, definisce e gestisce terapie, interventi riabilitativi, servizi pubblici e/o del privato sociale, sia l’unico ed assoluto depositario del sapere. è bene ricordare che nel percorso di cura devono essere attivamente coinvolti sia l’operatore, portatore di saperi teorici, dettati dal percorso accademico nonché dall'esperienza indiretta; ma anche e soprattutto, dall’esperienza diretta della persona. In quest’ottica il soggetto, non è più considerato parte passiva di un processo di cura; bensì attore attivo e partecipe. In questo modo si da la possibilità di scegliere liberamente, in scienza e coscienza, come agire nel percorso terapeutico. In altre parole attraverso la partecipazione diretta alle cure, si offre alla persona la possibilità di sviluppare “self-empowerment”: il potenziamento, personale e professionale, utilizzando al meglio le proprie capacità, energie e potenzialità. In altre parole significa diventare protagonisti della propria vita, saper essere innovativi e generativi, saper mobilitare il meglio di sé per esprimere al massimo il proprio potenziale. L’empowerment è un vero e proprio potere nelle persone che influisce sul loro sentimento di ben-essere e sulla percezione di auto efficacia Un potere che ha a che fare con variabili quali la motivazione, la sicurezza in sé, l’energia psichica, la tendenza ad un auto-controllo interno ben consolidato. Questa strategia è quella che permette di sentirsi sempre più inclusi nella comunità in cui si risiede. Tale approccio è dunque impostato sulla costruzione di nuovi paradigmi di intervento: dove la componente soggettiva e individuale ha un ruolo propositivo. Recovery ha dunque a che fare con le modalità con cui l’operatore si confronta con la domanda dei bisogni rilevati, non solo da parte di un’organizzazione dei servizi alla persona, ma anche e soprattutto, dai singoli soggetti. Risulta dunque fondamentale la consapevolezza e la necessità di mettere la persona in prima linea nella relazione d’aiuto e non considerarla dunque un soggetto passivo. Non è talvolta possibile continuare un percorso di Recovery, senza le risorse che il soggetto può trovare dentro di sé, grazie alla sua conoscenza della malattia in prima persona e dell’impatto interiore che essa ha avuto. Vi è quindi da parte del soggetto un "RIACQUISIRE SPAZIO" nella relazione terapeutica, ma non più e non solo come fruitore passivo di percorsi forniti da chi "SA COSA E' MEGLIO PER LUI", ma come soggetto che vede, vive, conosce la sua situazione e, in relazione a questa, è in grado di ridefinirsi, entrando contrattualmente e dialetticamente nell’operatività del processo terapeutico.
La Recovery permette dunque di conoscere un modo innovativo di ripensare la presenza dell’operatore, il quale viene visto in una posizione alternativa e complementare, in cui anche il "sapere professionale non solo viene utilizzato in chiave critica, ma viene messo in discussione, in quanto deve confrontarsi anche con l’esperienza soggettiva di chi vive in prima persona la cruda realtà di disagi così profondi. In sintesi l’applicazione della Recovery nel mondo della Salute mentale, risulta essere una soluzione idonea per "dare voce a chi non può esprimersi. Condividere la propria storia, il proprio dolore e le strategie attuate per poterlo affrontare, è fondamentale per migliorare, non solo la salute individuale, ma anche e soprattutto quella di tutti. La partecipazione diviene dunque un fattore imprescindibile per incrementare il cosiddetto "bene comune". Ed è proprio sulla scia di un approccio così innovativo che si intende farlo conoscere e applicare anche all’interno dei servizi che si occupano di cura i DCA. Si va sempre più pensando che il proprio sapere esperienziale possa apportare un contributo per i soggetti che, hanno vissuto o vivono, vicende simili. Raccontarsi significa anche riconoscersi e rispecchiarsi nella narrazione sentendosi più compresi e meno soli, rendendosi conto di non essere gli unici ad avere a che fare con la fragilità umana.
La missione dei professionisti che operano in questo campo, dei pazienti e dei famigliari sia proprio questa: quella di realizzare idonei spazi in cui la popolazione può accedere per ricevere aiuti adeguati e, soprattutto per scongiurare in tutti i modi di isolarsi ed emarginarsi totalmente dalla società. In ultima analisi condividere il proprio dolore con le persone che Ne hanno sofferto e che ne sono uscite, è uno dei primi passi, fra le strategie per incominciare a sentire meno il peso della sofferenza, il peso atroce che patologie come queste fanno sentire. Ed è per questo che chi soffrire di queste patologie conosce bene come il disturbo sia sempre lì in agguato, pronto a rubarti ogni speranza, ogni desiderio di combattere, di lottare per poter vivere fino in fondo. Lui è sempre lì, ti aspetta: sa colpire quando sei stanco, deluso, indifeso di fronte alle tue stesse paure. Il disturbo è un Taxi che ti offre a caro prezzo una finta difficoltà di fuga dalle tue angosce è sempre troppo tardi quando si ci rende conto di quanto la destinazione di quel viaggio sia un posto peggiore, dove solo gli echi del proprio dolore interiore riescono a bucare silenzi la cui coltre sembra estendersi in sé stessi. solo chi ha a che farci quotidianamente, può comprendere quanto in tutto questo, ci si sente soli oltre che incompresi da tutti. Per questa ragione è fondamentale la realizzazione di una rete di sostegno, capace di sostenere nei momenti di maggiore difficoltà oltre che aiutare a trovare strategie di risoluzione comuni. Strategie che da un lato possano funzionare su ciascun individuo, ma se condivise possono essere un supporto non solo a chi ne soffre, ma anche a chi giorno dopo giorno sta accanto al malato; perché questa è una patologia che come una sanguisuga colpisce dolorosamente anche chi non ne è direttamente affetto. In tal ottica condividere il racconto di chi soffre è fondamentale perché aiuta a non sentirsi troppo soli, ma soprattutto ad evitare il più possibile di percepire "odio" verso sé stessi, rimanendo ingabbiati, per un tempo indefinito, nelle grinfie della malattia.
Valorizzare le storie e le esperienze di chi soffre, permette inoltre di dare il giusto peso ad emozioni, racconti e attimi che cambiano profondamente intere vite oltre che intere famiglie. Trovare strategie di fronteggiamento condivise significa creare il fronte comune in una battaglia senza esclusione di colpi, dove chi resta solo rischia di perdersi, naufragando in un abissale mare. Spesso è un racconto particolareggiato e pieno, fatto di una massa di parole, cibo, emozioni. Fatto di esperienze non assimilate e digerite. Spesso è fatto di FAME, che si traduce in "mancanza", in "assenza".
La condivisione è pertanto considerata come una rete, una trama di un tessuto più grande; lo stesso che è in grado di reggere e contenere emozioni, parole, azioni Uno spazio e un tempo in cui apprendere che il nucleo identitario, frammentato e collettivo, può evolvere verso una maggiore integrazione di Sé col mondo circostante. Ed è alle emozioni sottostanti che bisogna mirare, ad una lenta destrutturazione delle gabbie mentali e ad una continua ricostruzione e rinascita della vita. Tutto questo è sì amplificato e complesso, ma possibile proprio grazie al rispetto delle diversità, nel riconoscimento del proprio dolore nell'esperienza altrui. La malattia è dunque, la miglior forma di adattamento che la persona trova per reggere il proprio dolore. Essere meno capace di connessione, infatti, chiude il corpo, chiude noi stessi, dall’accesso alla risonanza positiva. Limita le prospettive e le opportunità che la situazione ci offre.
Non è il dolore, infatti, a vincere. è la perdita della fiducia negli altri, la perdita di una visione ampia delle cose.
Quando rimaniamo sintonizzati con tutte le sfumature della situazione e in contatto con gli altri, quando non ci si identifica con le nostre emozioni difficili, ma non le neghiamo, non facciamo altro che portare il potere della condivisione in ciò che ci accade. Quando pratichiamo il potere della condivisione compiamo un atto estremo di riconciliazione: con sé stessi e con gli altri.
I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE: FRA SOLITUDINE E CONDIVISIONE
Il dolore che dilania chi soffre di un disturbo alimentare permette di riconoscere la propria sofferenza, potendo di conseguenza, trasformarlo in "risorsa", in potenzialità. In altri termini si impara ad andare sempre "oltre": oltre le parole, oltre i possibili giudizi, ma soprattutto, oltre gli stessi pregiudizi. Quelli che si aggirano in questi mondi: quelli dei disagi mentali, quelli delle malattie psichiatriche come quella presente nella realtà dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Una realtà ai più sconosciuta e inesplorata, nel quale non ci si sente mai compresi fino in fondo. Un mondo in cui si fa di tutto per sentirsi ascoltati, compresi e soprattutto accettati. In altre parole si chiede in tutti i modi di accoglierlo e comprenderlo quel grido di dolore. Lo stesso grido che si cerca di esprimere e manifestare attraverso il cibo e il corpo e che spesso risulta essere inascoltato dalla maggior parte della gente, anche dagli stessi professionisti: coloro che dinnanzi a una richiesta d’aiuto "fuori dagli schemi non sanno cercare, assieme alla persona, le risposte di cui si sente un disperato bisogno. Le stesse che non sembrano esistere di fronte a malesseri esistenziali così profondi. Mali dalle innumerevoli cause, la cui manifestazione è data da un dolore che risulta essere differente per ciascuno, anche perché ognuno vive la realtà in modo differente. Un dolore che si abbatte sul cuore di chi lo vive, sradicando la pace nei giorni, indipendentemente dal proprio peso. Inoltre, non è possibile comprendere fino in fondo, quanto un disturbo come questo incida sulla vita di una persona. Per questo motivo non si possono utilizzare come riferimento criteri diagnostici specifici e tangibili: queste patologie sono invisibili come i fattori da cui derivano. Per questo motivo, patologie come queste, devono essere affrontate differentemente a seconda dei sintomi manifesti.
Con questo scritto si intende perciò sensibilizzare anche chi vi è estraneo a questi mondi, a queste realtà così complesse. A titolo informativo vi basti sapere che il tasso di incidenza, soprattutto tra i più giovani, è in continua crescita. È altrettanto vero constatare quanto questi temi siano ancora troppo oscuri e nascosti nei contesti sociali in cui si vive e si cresce. Ciò risulta essere alquanto pericoloso perché in un mondo in cui i modelli predominanti sembrano essere quelli di "Magrezza", "perfezione", "superficialità", capaci di contribuire significativamente ad accentuare il senso di alienazione in cui sempre più si sta precipitando Modelli che sicuramente influenzano le scelte che si intraprendono nella vita quotidiana, ma non sono solo quelli a favorisce lo sviluppo di un disturbo del comportamento alimentare. Nella maggior parte dei casi i fattori per cui un DCA può svilupparsi sono molteplici, fra questi possiamo ricordare il contesto famigliare, sociale e relazionale, in cui si crescere Anche i traumi, le esperienze passate, significative e dolorose, sono fattori per cui la persona può sviluppare una patologia alimentare. Una malattia mentale dannatamente resistente e insidiosa, ma non inestirpabile; affinché tale guarigione si verifichi è necessario fornire aiuti adeguati, dove le persone vengono accolte per il "problema" anche quando le loro caratteristiche non corrispondono alla presa in carice, dove i tempi d’attesa rispondono alla gravità e all’urgenza della patologia e dove nessuno venga escluso dalla cura solo perché "normopeso" sottovalutando completamente l'impatto emotivo di queste patologie. In altri termini è fondamentale ACCOGLIERE la persona per quella che è e per il PESO della sua sofferenza e non secondo criteri diagnostici per specifici, perché, spesso anche chi non rientra nei criteri diagnostici del DSM-V (Manuale diagnostico di Disturbi Mentali) può vivere un disagio alimentare. Con questo non si intende sminuire la portata della psicopatologia mentale, nonché meno del lavoro svolto dalla psichiatria, bensì si intende sottolineare l’importanza di non lasciare nessuno in dietro, anche chi apparentemente sembra stare bene. Una considerazione importante, per chi soffre di patologie come queste che sono in grado di introdursi silenziosamente nelle menti delle persone, le quali spesso, sono rese più fragili, dal contesto sociale e ambientale in cui vivono. Ignari non si accorgono di come questi disturbi, rosicchiano lentamente le loro esistenze, stritola dole e fagocitandole come un pitone attorno alla sua preda. Per queste ragioni vogliamo raccontare per informare: questi sono mali, tanto insidiosi e annichilenti, nonché potenzialmente letali che però possono essere sconfitti. Coloro che soffre di queste malattie, sono prigionieri dei propri pensieri, emozioni e comportamenti. In altre parole sono prigionieri di sé stessi. è come se il loro “Io” fosse scisso in una parte sana ed una malata. Quest’ultima si impone con una volontà distorta, mettendo a tacere ogni emozione della controparte sana. Ed è così che la consapevolezza di sé, del proprio corpo, dei propri limiti, si dissolve sviluppando un senso di invincibilità e una tensione all’eterna perfezione, verso il superamento dei propri limiti, rappresentati dallo stesso corpo. Egli viene infatti attribuito da Platone come “tomba dell'anima allontanano il soggetto affetto del disturbo da una corretta percezione di sé, distorcendola al punto che tutto ciò che di sé vede riflesso nello specchio risulta essere "troppo": troppo grosso, troppo grasso, troppo goffo, troppo ingombrante. Facendo così la “verità distorta mette a tacere la sua controparte sana, imponendo alla propria vittima di tagliare, perfezionare, smussare, rimuovere e scarnificare ciò che eccede per poter finalmente essere perfetta e quindi accettata e degna d’essere amata. In virtù di tale necessità chi soffre di un DCA si chiude sempre più in sé stesso, rischiando sempre pi] di sentirsi solo. Tale solitudine, deriva da un lato dall'incapacità di molti nel comprendere i vissuti e le emozioni che si vivono quando si finisce nel vortice di queste patologie. dall’altro il bisogno di rispettare determinati schemi, dai quali non si può uscire, diventa un pretesto per rifiutare qualsiasi attività socializzante in cui vi ~ coinvolto il cibo.
Individuare le motivazioni di questo stato di solitudine, non è per niente facile, ma è il primo passo per affrontare il problema del "mangiare compulsivo La solitudine è dovuta a pensieri irrazionali che ci fanno credere di essere incapaci di gestire rapporti sociali. Queste situazioni si possono superare favorendo proprio gli incontri, le uscite e la partecipazione ad eventi collettivi, ponendo tuttavia molta attenzione nel lasciare spazio emotivo alla persona, in un processo guidato che eviti stress emotivo. è fondamentale riscoprire e toccare con mano che tutti siamo in grado di relazionarsi perché è una capacità insita nell’essere umano per quanto debilitato da un dolore che non conosce tregua. In altri casi la solitudine è data dal fatto che le relazioni che si instaurano sembrano non dare la possibilità o la fiducia di essere sé stessi regalando a chi sta vicino ciò che ci si porta dentro: il cuore. Si teme che esprimendo ciò che si vive, si possa essere mal giudicati dall’altro, in tal caso c'è alla base la paura o l’impossibilità di condividere le proprie emozioni. Pensieri come questi si possono superare allacciando amicizie con una o due persone, con cui aprirsi e toccare con mano che a volte la paura del giudizio può essere superata a poco a poco in un percorso condiviso che porta a riacquistare gradualmente fiducia in sé stessi. La solitudine che percepisce chi soffre di DCA non è quella dettata dal non stare insieme agli altri, bensì quella presente anche in mezzo alle persone, la quale fa sentire l’abissale vuoto che infiamma e sopprime lo stomaco. Un vuoto che si prende con se perfino le parole: quelle che silenziosamente logorano l’animo, segnando cicatrici indelebili nel cuore. La sofferenza che si vive, che va al di là dei sintomi stessi (cioè dalla percezione abnorme del corpo, dal fatto che si mangi una foglia di insalata, o 20 chili di pasta) appartiene così tanto da pensare che il proprio dolore è incomprensibile e, quindi inspiegabile, per chi vive assieme a chi soffre di DCA. Questa convinzione fa catapultare in un’altra dimensione interiore, ai più misteriosa e sconosciuta, nella quale nessuno può accedervi. In altri termini, chi soffre di mali così gravi e complessi, si ritrova da un lato a dover “nascondere” il cibo per poter “dar voce al sintomo; dall’altro attraverso il comportamento stesso, si cerca in tutti i modi di manifestare con chiarezza, attraverso il corpo, quanto ciò che si porta dentro faccia male. Apparentemente, quanto fin qui descritto, sembra essere contraddittorio quando in realtà non è proprio così, perché queste patologie hanno una logica tutta loro. Una logica difficile da esprimere a parole, perché quest’ultime spesso risultano essere insufficienti per spiegare il mare di emozioni che si porta dentro. Per poter comprendere fino in fondo il suo linguaggio (quello della malattia) si deve effettuare un percorso su sé stessi, capace di aiutare a comprendere con più chiarezza ciò che si sente, riuscendo così a dare un nome a tutto ciò che si vive: un gomitolo infinitamente ingarbugliato che, per un tempo indefinito, non permette di riconoscere e quindi di spiegare agli altri le sensazioni che il comportamento alimentare suscita. Tali percezioni riempiono così tanto da svuotare totalmente da tutto quel dolore capace di devastare gli animi di chiunque vive situazioni come quelle dei DC. Spesso gli effetti di questi comportamenti sono poco riconoscibili di primo acchito e questa è una delle ragioni per cui si sente un grande vuoto interiore. Da lì il passo è breve per sentire quella solitudine estremamente incomprensibile Per questa ragione si evita in tutti i modi di condividere ciò che si prova, un po' per vergogna, un po' perché ci si sente "folli", "matti", estremamente fuori dalle condotte comportamentali accettate dal contesto famigliare e sociale. Facendo così le persone intorno non possono sapere ciò che appartiene al cuore, possono solo immaginarlo, ma non conoscerlo, anche se è molto facile aspettarsi che lo comprendano, senza la necessità di comunicare con le parole. Per assurdo si pensa che gli altri debbano ASCOLTARE, capire, quando si è i primi a non riuscirci fino in fondo. In qualche modo, senza volerlo, OBBLIGHIAMO gli altri a capire da uno sguardo, o da un atteggiamento e, se ciò non si verifica, la rabbia e la frustrazione prendono il sopravento, alimentando così un circolo vizioso che non trova tregua. Questo perché nessuno, fra coloro a cui si vuole bene, riesce a capire fino in fondo ciò che si vive, arrivando persino a identificarsi con la malattia: pensando di essere la "malattia", dimenticando che si è prima di tutto persone e che in quanto tali non possono essere "il DISTURBO bensì ciò che si riesce a realizzare anche attraverso la sua presenza nella vita. In altri termini, ciò che siamo diventati grazie alla sua presenza nelle nostre esistenze.
Come già affermato ciò che logora maggiormente chi soffre di Disturbi Alimentari è il senso di solitudine e di incomprensione. Un senso di solitudine che col tempo è capace di schiacciare dentro, di opprimere sempre più l’animo, in definitiva, il cuore. Una solitudine densa che non abbandona nemmeno quando si è circondati da persone che cercano di comunicare. Si sente troppo spesso soli nel portare avanti punti di vista e prospettive del mondo nelle quali ci si sente isolati. È come combattere, apparentemente insieme, contro un nemico che si manifesta con forme diverse per ognuno: per chi non soffre del disturbo esso si confonde con una scelta o un’inclinazione della persona, la quale invece si trova a combattere ogni giorno per uscire dalla prigione che si porta dentro, nel tentativo continuo e spesso vano di esprimere un estremo bisogno d’aiuto. Così, per chi soffre di DCA, diventa difficile e doloroso costruire e mantenere buone relazioni umane, perché nel farlo si ci trova a scontrarsi quotidianamente con la "NON ACCETTAZIONE" da parte di sé stessi e di ciò che si è veramente, prima ancora che con quella da parte degli altri. Ulteriormente chi si confronta con la realtà di chi soffre si trova in difficoltà quando si accorge del fatto che chi soffre di Disturbi Alimentari tende a identificarsi col disturbo stesso e può pensare che la persona si sia arresa e non desideri cambiare la situazione: un’ulteriore incomprensione che si aggiunge alle tante, determinando distanza e solitudine. Proprio per questo motivo è di fondamentale importanza il lavoro terapeutico condiviso in équipe nel quale vi è al centro la famiglia, le persone care vicine al paziente e il soggetto stesso il quale deve essere considerato parte attiva dello stesso percorso terapeutico. Nello stesso percorso è di fondamentale importanza il coinvolgimento diretto della persona, la quale deve essere informata sulle scelte intraprese al fine di costruire un percorso di cura condiviso. Il sostegno che arriva dai medici, dalle persone che vivono o hanno vissuto, la stessa condizione, dalla famiglia e dagli amici può essere la chiave di volta per guarire dai disturbi del comportamento alimentare: un problema semplice, ma di una sfida estremamente ardua che si può e si deve vincere per vivere al meglio la propria vita. In fondo guarire vuol dire non aver più bisogno di manomettere il proprio rapporto con il cibo e con il corpo. Un rapporto che perdurerà per molto tempo e Fino a quando si frapporrà qualcosa tra il paziente, il cibo e il corpo, fino a quando le paure, le angosce, i fantasmi, continueranno ad inquinare, a ingabbiare, la libertà di mangiare o di apparire, non può esserci guarigione. Questo al di là di ogni peso immaginabile, al di là di ogni abitudine alimentare. In altri termini, guarire significa non essere più costretti a ricorrere al cibo per assecondare le proprie aspettative di perfezione. Significa non dover più fustigare il proprio corpo per lenire le proprie colpe (chissà poi per quale reato commesso). Guarire significa essere liberi di entrare in risonanza con la propria anima, con la propria umana essenza, senza sentirsi troppo giudicati o in balia dello sguardo altrui. Guarire, significa dunque, liberarsi da tutti gli schemi comportamentali che ci fanno soffrire, potendo così raggiungere un rapporto sereno ed equilibrato nei confronti del corpo e del cibo. Guarire, infine, significa anche vivere le esperienze del quotidiano non solo come elemento minaccioso per il nostro equilibrio emotivo; bensì come parte integrante della nostra personalità. In altre parole, questi stati emotivi, non vengono più considerati minacciosi per la nostra salute psicofisica; piuttosto come fattori essenziali per entrare in contatto con la parte più profonda di sé: sé stessi.
Per far sì che la persona guarisca è fondamentale usufruire degli aiuti adeguatiI checonsistonoo , nel sostenere la persona a esprimere tutto ciò che la fa stare male. A tal proposito,uscirda unnDCAD non è impossibile, sebbene sia molto, molto faticoso, perché si deve cercare di trovare un equilibrio pergestire lepropriee emozionite. Questo però non significa che non bisogna impegnarsi per trovarel'equilibrio cheefaa alcaso proprio;;ma, non bisogna nemmeno pensare che è possibile uscirne da soli. È infatti necessario farsi aiutare da persone professionalmente preparae competenti,, capaci di comprendere e ascoltare le esigenze della persona che deve essere partecipe e attiva nel percorso di cura. In questi casi il lavoro in équipe è fondamentale e funzionale ai fini della cura. Solitamente in queste situazioni i professionisti a cui la personasi rivolgee e si affida, sono lo psicologo, lo psichiatra e un professionista della nutrizione,il dietologooo (questi sonoi più] importanti).Perr far sì che questo metododi lavoroosia efficace,, è necessario che i professionisti collaborino in maniera coesa e sinergica.E'’ inoltrenecessarior o che abbiano protocolli comuni da seguire, ma anche che facciano parte di un unico servizio: quello dei Disturbi del ComportamentoAlimentari. Servizi, che devono essere facilmente reperibili e presenti nelpercorso teraputico,,i qualiipossonoò presentare continui e repentinicambi d'orizzonte.. È inoltre fondamentale lavorare affinché, la rete dei servizisul territoriooo dedicati ai pazienti con DCA,sia capillarmentee presente e attivo nella lotta contro queste patologi
è inoltre fondamentale lavorare sulla prevenzione attraverso attività condivise sul territorio di sensibilizzazione. A titolo esemplificativo possiamo citare la sensibilizzazione nelle scuole, nelle quali è fondamentale ar conoscere non solo la presenza di disturbi come questi, ma anche i servizi che s i occupano di aiutare chi né soffre. Inoltre sensibilizzare, diviene un alto modo, un altro strategia per aiutare le persone più fragili ad aprirsi e se lo ritengono necessario chiedere aiuto. Per questa ragione p
Parlare dei propri problemi non è mai semplice, ancora meno, se il percorso di guarigione dalla condizione problematica non si è ancora concluso. Ed è proprio per questo che credo nel fatto che condividere con altri le nostre difficoltà, sia un'opportunità per trovare delle strategie di auto miglioramento. Sono sicura di quanto questo possa essere utile per tutti, per far conoscere agli altri quelli che sono gli effetti devastanti che questo disturbo provoca sul nostro corpo e sulla nostra mente. Penso che questo sia fondamentale, per è la chiave per poter incominciare quel lungo percorso di cambiamento, che si spera, possa aiutare a fuoriuscire dagli schemi del disturbo alimentare Ciò naturalmente non è assolutamente facile, anzi, spesso fa un male non indifferente, perché ci si confronta con il proprio passato e con ciò che ha fatto particolarmente soffrire. Tale difficoltà non riguarda solo il trattamento del disturbo dal punto di vista clinico, ma anche di quanto quest'ultimo sia ancora poco conosciuto e subdolo, proprio perché le dinamiche che comporta sono complesse; ed è per questo che si fa fatica a provvedere a cure idonee alle esigenze della persona. La difficoltà di trattarlo fa sì che egli possa continuare la sua devastante e silenziosa azione nella vita di molte persone. Questo perché il disturbo da un lato le rassicura e dall’altro le attanaglia Per questa ragione la sua individuazione può risultare alquanto complicata e, perché queste patologie vengano conosciute all’interno delle comunità locali, è necessario la realizzazione e diffusione di gruppi di auto-aiuto che si sostengono in maniera capillare sul territorio. La formazione di reti formali e informali non solo permette di sostenere le persone che soffrono di questi disturbi, ma da anche la possibilità di informare e di conseguenza formare la popolazione in merito a queste situazioni problematiche. Un altro modo per sensibilizzare è quello di diffondere la conoscenza dei DCA all’interno delle scuole e di tutti quei servizi pubblici e privati frequentati dai giovani. In questo modo non solo si sensibilizza le persone su quelli che sono gli effetti devastanti che queste patologie hanno sulla vita delle persone, ma si da la possibilità di conoscere le realtà che trattano e curano i disturbi alimentari. In altri termini, far conoscere realtà come queste, permette in un certo senso, di effettuare adeguate riflessioni sulle strategie di fronteggiamento, ma è anche l’occasione per realizzare adeguati spazi di condivisione in cui le persone possono reciprocamente sostenersi. Questo fa capire che più il problema emerge, più si hanno le risorse per poterlo affrontare, non solo con l’aiuto dei professionisti ma anche attraverso le reti del privato sociale. Reti che se diffuse capillarmente sul territorio permettono di raggiungere più persone possibili che soffrono di malattie come queste. Lavorare in stretta sinergia fra i servizi pubblici, il privato sociale e i singoli cittadini, permette di raggiungere un numero di persone maggiore, impedendo in questo modo di farle sentire sole e abbandonate a sé stesse. Quanto descritto è un metodo di lavoro che se portato avanti in maniera sistematica, coesa e sinergica con tutti i soggetti coinvolti permettendo così di mantenere al centro i bisogni della persona, rendendola attiva e partecipe in tutto il percorso di cura. In altre parole, questo approccio quello di Popolazione, permette all’intera comunità locale di far fronte a a queste fragilità considerandole non più solo dei singoli soggetti, ma di tutti (Beni Comuni), motivo per cui devono essere affrontati insieme ai cittadini. Fare rete fra le istituzioni pubbliche, quelle private e i comuni cittadini, è la strategia che bisognerebbe portare avanti sempre più nel futuro dei servizi socio sanitari e socio assistenziali indipendentemente dalla fragilità che si intende trattare. Al lavoro di rete e di comunità, va aggiunta la collaborazione delle reti dell’auto aiuto. Ed è in quest’occasione che si mette in pratica il così detto "Sapere Esperienziale" che aggiunto a quello professionale permette di realizzare servizi al pari dell esigenze delle persone. In altre parole, questi due saperi se integrati fra di loro, permettono di far sentire la persona compresa e ascoltata da un lato soddisfano le sue esigenze emotive; dall’altro rassicurano il professionista, che si può occupare della condizione clinica. Lavorare in questo modo permette di soddisfare in maniera più globale i bisogni e le esigenze delle persone che si rivolgono a un determinato servizio.
Il sapere esperienziale è considerato la base per promuovere "ben-essere" all’interno delle comunità di appartenenza, un approccio sviluppato fra la seconda metà degli anni '70 e degli anni 80. Esso è definito dalle scienze sociali col nome di "Recovery".
L’assunto di base del concetto di Recovery è il seguente: non si deve più dare per scontato che chi imposta, definisce e gestisce terapie, interventi riabilitativi, servizi pubblici e/o del privato sociale, sia l’unico ed assoluto depositario del sapere. è bene ricordare che nel percorso di cura devono essere attivamente coinvolti sia l’operatore, portatore di saperi teorici, dettati dal percorso accademico nonché dall'esperienza indiretta; ma anche e soprattutto, dall’esperienza diretta della persona. In quest’ottica il soggetto, non è più considerato parte passiva di un processo di cura; bensì attore attivo e partecipe. In questo modo si da la possibilità di scegliere liberamente, in scienza e coscienza, come agire nel percorso terapeutico. In altre parole attraverso la partecipazione diretta alle cure, si offre alla persona la possibilità di sviluppare “self-empowerment”: il potenziamento, personale e professionale, utilizzando al meglio le proprie capacità, energie e potenzialità. In altre parole significa diventare protagonisti della propria vita, saper essere innovativi e generativi, saper mobilitare il meglio di sé per esprimere al massimo il proprio potenziale. L’empowerment è un vero e proprio potere nelle persone che influisce sul loro sentimento di ben-essere e sulla percezione di auto efficacia Un potere che ha a che fare con variabili quali la motivazione, la sicurezza in sé, l’energia psichica, la tendenza ad un auto-controllo interno ben consolidato. Questa strategia è quella che permette di sentirsi sempre più inclusi nella comunità in cui si risiede. Tale approccio è dunque impostato sulla costruzione di nuovi paradigmi di intervento: dove la componente soggettiva e individuale ha un ruolo propositivo. Recovery ha dunque a che fare con le modalità con cui l’operatore si confronta con la domanda dei bisogni rilevati, non solo da parte di un’organizzazione dei servizi alla persona, ma anche e soprattutto, dai singoli soggetti. Risulta dunque fondamentale la consapevolezza e la necessità di mettere la persona in prima linea nella relazione d’aiuto e non considerarla dunque un soggetto passivo. Non è talvolta possibile continuare un percorso di Recovery, senza le risorse che il soggetto può trovare dentro di sé, grazie alla sua conoscenza della malattia in prima persona e dell’impatto interiore che essa ha avuto. Vi è quindi da parte del soggetto un "RIACQUISIRE SPAZIO" nella relazione terapeutica, ma non più e non solo come fruitore passivo di percorsi forniti da chi "SA COSA E' MEGLIO PER LUI", ma come soggetto che vede, vive, conosce la sua situazione e, in relazione a questa, è in grado di ridefinirsi, entrando contrattualmente e dialetticamente nell’operatività del processo terapeutico.
La Recovery permette dunque di conoscere un modo innovativo di ripensare la presenza dell’operatore, il quale viene visto in una posizione alternativa e complementare, in cui anche il "sapere professionale non solo viene utilizzato in chiave critica, ma viene messo in discussione, in quanto deve confrontarsi anche con l’esperienza soggettiva di chi vive in prima persona la cruda realtà di disagi così profondi. In sintesi l’applicazione della Recovery nel mondo della Salute mentale, risulta essere una soluzione idonea per "dare voce a chi non può esprimersi. Condividere la propria storia, il proprio dolore e le strategie attuate per poterlo affrontare, è fondamentale per migliorare, non solo la salute individuale, ma anche e soprattutto quella di tutti. La partecipazione diviene dunque un fattore imprescindibile per incrementare il cosiddetto "bene comune". Ed è proprio sulla scia di un approccio così innovativo che si intende farlo conoscere e applicare anche all’interno dei servizi che si occupano di cura i DCA. Si va sempre più pensando che il proprio sapere esperienziale possa apportare un contributo per i soggetti che, hanno vissuto o vivono, vicende simili. Raccontarsi significa anche riconoscersi e rispecchiarsi nella narrazione sentendosi più compresi e meno soli, rendendosi conto di non essere gli unici ad avere a che fare con la fragilità umana.
La missione dei professionisti che operano in questo campo, dei pazienti e dei famigliari sia proprio questa: quella di realizzare idonei spazi in cui la popolazione può accedere per ricevere aiuti adeguati e, soprattutto per scongiurare in tutti i modi di isolarsi ed emarginarsi totalmente dalla società. In ultima analisi condividere il proprio dolore con le persone che Ne hanno sofferto e che ne sono uscite, è uno dei primi passi, fra le strategie per incominciare a sentire meno il peso della sofferenza, il peso atroce che patologie come queste fanno sentire. Ed è per questo che chi soffrire di queste patologie conosce bene come il disturbo sia sempre lì in agguato, pronto a rubarti ogni speranza, ogni desiderio di combattere, di lottare per poter vivere fino in fondo. Lui è sempre lì, ti aspetta: sa colpire quando sei stanco, deluso, indifeso di fronte alle tue stesse paure. Il disturbo è un Taxi che ti offre a caro prezzo una finta difficoltà di fuga dalle tue angosce è sempre troppo tardi quando si ci rende conto di quanto la destinazione di quel viaggio sia un posto peggiore, dove solo gli echi del proprio dolore interiore riescono a bucare silenzi la cui coltre sembra estendersi in sé stessi. solo chi ha a che farci quotidianamente, può comprendere quanto in tutto questo, ci si sente soli oltre che incompresi da tutti. Per questa ragione è fondamentale la realizzazione di una rete di sostegno, capace di sostenere nei momenti di maggiore difficoltà oltre che aiutare a trovare strategie di risoluzione comuni. Strategie che da un lato possano funzionare su ciascun individuo, ma se condivise possono essere un supporto non solo a chi ne soffre, ma anche a chi giorno dopo giorno sta accanto al malato; perché questa è una patologia che come una sanguisuga colpisce dolorosamente anche chi non ne è direttamente affetto. In tal ottica condividere il racconto di chi soffre è fondamentale perché aiuta a non sentirsi troppo soli, ma soprattutto ad evitare il più possibile di percepire "odio" verso sé stessi, rimanendo ingabbiati, per un tempo indefinito, nelle grinfie della malattia.
Valorizzare le storie e le esperienze di chi soffre, permette inoltre di dare il giusto peso ad emozioni, racconti e attimi che cambiano profondamente intere vite oltre che intere famiglie. Trovare strategie di fronteggiamento condivise significa creare il fronte comune in una battaglia senza esclusione di colpi, dove chi resta solo rischia di perdersi, naufragando in un abissale mare. Spesso è un racconto particolareggiato e pieno, fatto di una massa di parole, cibo, emozioni. Fatto di esperienze non assimilate e digerite. Spesso è fatto di FAME, che si traduce in "mancanza", in "assenza".
La condivisione è pertanto considerata come una rete, una trama di un tessuto più grande; lo stesso che è in grado di reggere e contenere emozioni, parole, azioni Uno spazio e un tempo in cui apprendere che il nucleo identitario, frammentato e collettivo, può evolvere verso una maggiore integrazione di Sé col mondo circostante. Ed è alle emozioni sottostanti che bisogna mirare, ad una lenta destrutturazione delle gabbie mentali e ad una continua ricostruzione e rinascita della vita. Tutto questo è sì amplificato e complesso, ma possibile proprio grazie al rispetto delle diversità, nel riconoscimento del proprio dolore nell'esperienza altrui. La malattia è dunque, la miglior forma di adattamento che la persona trova per reggere il proprio dolore. Essere meno capace di connessione, infatti, chiude il corpo, chiude noi stessi, dall’accesso alla risonanza positiva. Limita le prospettive e le opportunità che la situazione ci offre.
Non è il dolore, infatti, a vincere. è la perdita della fiducia negli altri, la perdita di una visione ampia delle cose.
Quando rimaniamo sintonizzati con tutte le sfumature della situazione e in contatto con gli altri, quando non ci si identifica con le nostre emozioni difficili, ma non le neghiamo, non facciamo altro che portare il potere della condivisione in ciò che ci accade. Quando pratichiamo il potere della condivisione compiamo un atto estremo di riconciliazione: con sé stessi e con gli altri.
I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE: FRA SOLITUDINE E CONDIVISIONE
Il dolore che dilania chi soffre di un disturbo alimentare permette di riconoscere la propria sofferenza, potendo di conseguenza, trasformarlo in "risorsa", in potenzialità. In altri termini si impara ad andare sempre "oltre": oltre le parole, oltre i possibili giudizi, ma soprattutto, oltre gli stessi pregiudizi. Quelli che si aggirano in questi mondi: quelli dei disagi mentali, quelli delle malattie psichiatriche come quella presente nella realtà dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Una realtà ai più sconosciuta e inesplorata, nel quale non ci si sente mai compresi fino in fondo. Un mondo in cui si fa di tutto per sentirsi ascoltati, compresi e soprattutto accettati. In altre parole si chiede in tutti i modi di accoglierlo e comprenderlo quel grido di dolore. Lo stesso grido che si cerca di esprimere e manifestare attraverso il cibo e il corpo e che spesso risulta essere inascoltato dalla maggior parte della gente, anche dagli stessi professionisti: coloro che dinnanzi a una richiesta d’aiuto "fuori dagli schemi non sanno cercare, assieme alla persona, le risposte di cui si sente un disperato bisogno. Le stesse che non sembrano esistere di fronte a malesseri esistenziali così profondi. Mali dalle innumerevoli cause, la cui manifestazione è data da un dolore che risulta essere differente per ciascuno, anche perché ognuno vive la realtà in modo differente. Un dolore che si abbatte sul cuore di chi lo vive, sradicando la pace nei giorni, indipendentemente dal proprio peso. Inoltre, non è possibile comprendere fino in fondo, quanto un disturbo come questo incida sulla vita di una persona. Per questo motivo non si possono utilizzare come riferimento criteri diagnostici specifici e tangibili: queste patologie sono invisibili come i fattori da cui derivano. Per questo motivo, patologie come queste, devono essere affrontate differentemente a seconda dei sintomi manifesti.
Con questo scritto si intende perciò sensibilizzare anche chi vi è estraneo a questi mondi, a queste realtà così complesse. A titolo informativo vi basti sapere che il tasso di incidenza, soprattutto tra i più giovani, è in continua crescita. È altrettanto vero constatare quanto questi temi siano ancora troppo oscuri e nascosti nei contesti sociali in cui si vive e si cresce. Ciò risulta essere alquanto pericoloso perché in un mondo in cui i modelli predominanti sembrano essere quelli di "Magrezza", "perfezione", "superficialità", capaci di contribuire significativamente ad accentuare il senso di alienazione in cui sempre più si sta precipitando Modelli che sicuramente influenzano le scelte che si intraprendono nella vita quotidiana, ma non sono solo quelli a favorisce lo sviluppo di un disturbo del comportamento alimentare. Nella maggior parte dei casi i fattori per cui un DCA può svilupparsi sono molteplici, fra questi possiamo ricordare il contesto famigliare, sociale e relazionale, in cui si crescere Anche i traumi, le esperienze passate, significative e dolorose, sono fattori per cui la persona può sviluppare una patologia alimentare. Una malattia mentale dannatamente resistente e insidiosa, ma non inestirpabile; affinché tale guarigione si verifichi è necessario fornire aiuti adeguati, dove le persone vengono accolte per il "problema" anche quando le loro caratteristiche non corrispondono alla presa in carice, dove i tempi d’attesa rispondono alla gravità e all’urgenza della patologia e dove nessuno venga escluso dalla cura solo perché "normopeso" sottovalutando completamente l'impatto emotivo di queste patologie. In altri termini è fondamentale ACCOGLIERE la persona per quella che è e per il PESO della sua sofferenza e non secondo criteri diagnostici per specifici, perché, spesso anche chi non rientra nei criteri diagnostici del DSM-V (Manuale diagnostico di Disturbi Mentali) può vivere un disagio alimentare. Con questo non si intende sminuire la portata della psicopatologia mentale, nonché meno del lavoro svolto dalla psichiatria, bensì si intende sottolineare l’importanza di non lasciare nessuno in dietro, anche chi apparentemente sembra stare bene. Una considerazione importante, per chi soffre di patologie come queste che sono in grado di introdursi silenziosamente nelle menti delle persone, le quali spesso, sono rese più fragili, dal contesto sociale e ambientale in cui vivono. Ignari non si accorgono di come questi disturbi, rosicchiano lentamente le loro esistenze, stritola dole e fagocitandole come un pitone attorno alla sua preda. Per queste ragioni vogliamo raccontare per informare: questi sono mali, tanto insidiosi e annichilenti, nonché potenzialmente letali che però possono essere sconfitti. Coloro che soffre di queste malattie, sono prigionieri dei propri pensieri, emozioni e comportamenti. In altre parole sono prigionieri di sé stessi. è come se il loro “Io” fosse scisso in una parte sana ed una malata. Quest’ultima si impone con una volontà distorta, mettendo a tacere ogni emozione della controparte sana. Ed è così che la consapevolezza di sé, del proprio corpo, dei propri limiti, si dissolve sviluppando un senso di invincibilità e una tensione all’eterna perfezione, verso il superamento dei propri limiti, rappresentati dallo stesso corpo. Egli viene infatti attribuito da Platone come “tomba dell'anima allontanano il soggetto affetto del disturbo da una corretta percezione di sé, distorcendola al punto che tutto ciò che di sé vede riflesso nello specchio risulta essere "troppo": troppo grosso, troppo grasso, troppo goffo, troppo ingombrante. Facendo così la “verità distorta mette a tacere la sua controparte sana, imponendo alla propria vittima di tagliare, perfezionare, smussare, rimuovere e scarnificare ciò che eccede per poter finalmente essere perfetta e quindi accettata e degna d’essere amata. In virtù di tale necessità chi soffre di un DCA si chiude sempre più in sé stesso, rischiando sempre pi] di sentirsi solo. Tale solitudine, deriva da un lato dall'incapacità di molti nel comprendere i vissuti e le emozioni che si vivono quando si finisce nel vortice di queste patologie. dall’altro il bisogno di rispettare determinati schemi, dai quali non si può uscire, diventa un pretesto per rifiutare qualsiasi attività socializzante in cui vi ~ coinvolto il cibo.
Individuare le motivazioni di questo stato di solitudine, non è per niente facile, ma è il primo passo per affrontare il problema del "mangiare compulsivo La solitudine è dovuta a pensieri irrazionali che ci fanno credere di essere incapaci di gestire rapporti sociali. Queste situazioni si possono superare favorendo proprio gli incontri, le uscite e la partecipazione ad eventi collettivi, ponendo tuttavia molta attenzione nel lasciare spazio emotivo alla persona, in un processo guidato che eviti stress emotivo. è fondamentale riscoprire e toccare con mano che tutti siamo in grado di relazionarsi perché è una capacità insita nell’essere umano per quanto debilitato da un dolore che non conosce tregua. In altri casi la solitudine è data dal fatto che le relazioni che si instaurano sembrano non dare la possibilità o la fiducia di essere sé stessi regalando a chi sta vicino ciò che ci si porta dentro: il cuore. Si teme che esprimendo ciò che si vive, si possa essere mal giudicati dall’altro, in tal caso c'è alla base la paura o l’impossibilità di condividere le proprie emozioni. Pensieri come questi si possono superare allacciando amicizie con una o due persone, con cui aprirsi e toccare con mano che a volte la paura del giudizio può essere superata a poco a poco in un percorso condiviso che porta a riacquistare gradualmente fiducia in sé stessi. La solitudine che percepisce chi soffre di DCA non è quella dettata dal non stare insieme agli altri, bensì quella presente anche in mezzo alle persone, la quale fa sentire l’abissale vuoto che infiamma e sopprime lo stomaco. Un vuoto che si prende con se perfino le parole: quelle che silenziosamente logorano l’animo, segnando cicatrici indelebili nel cuore. La sofferenza che si vive, che va al di là dei sintomi stessi (cioè dalla percezione abnorme del corpo, dal fatto che si mangi una foglia di insalata, o 20 chili di pasta) appartiene così tanto da pensare che il proprio dolore è incomprensibile e, quindi inspiegabile, per chi vive assieme a chi soffre di DCA. Questa convinzione fa catapultare in un’altra dimensione interiore, ai più misteriosa e sconosciuta, nella quale nessuno può accedervi. In altri termini, chi soffre di mali così gravi e complessi, si ritrova da un lato a dover “nascondere” il cibo per poter “dar voce al sintomo; dall’altro attraverso il comportamento stesso, si cerca in tutti i modi di manifestare con chiarezza, attraverso il corpo, quanto ciò che si porta dentro faccia male. Apparentemente, quanto fin qui descritto, sembra essere contraddittorio quando in realtà non è proprio così, perché queste patologie hanno una logica tutta loro. Una logica difficile da esprimere a parole, perché quest’ultime spesso risultano essere insufficienti per spiegare il mare di emozioni che si porta dentro. Per poter comprendere fino in fondo il suo linguaggio (quello della malattia) si deve effettuare un percorso su sé stessi, capace di aiutare a comprendere con più chiarezza ciò che si sente, riuscendo così a dare un nome a tutto ciò che si vive: un gomitolo infinitamente ingarbugliato che, per un tempo indefinito, non permette di riconoscere e quindi di spiegare agli altri le sensazioni che il comportamento alimentare suscita. Tali percezioni riempiono così tanto da svuotare totalmente da tutto quel dolore capace di devastare gli animi di chiunque vive situazioni come quelle dei DC. Spesso gli effetti di questi comportamenti sono poco riconoscibili di primo acchito e questa è una delle ragioni per cui si sente un grande vuoto interiore. Da lì il passo è breve per sentire quella solitudine estremamente incomprensibile Per questa ragione si evita in tutti i modi di condividere ciò che si prova, un po' per vergogna, un po' perché ci si sente "folli", "matti", estremamente fuori dalle condotte comportamentali accettate dal contesto famigliare e sociale. Facendo così le persone intorno non possono sapere ciò che appartiene al cuore, possono solo immaginarlo, ma non conoscerlo, anche se è molto facile aspettarsi che lo comprendano, senza la necessità di comunicare con le parole. Per assurdo si pensa che gli altri debbano ASCOLTARE, capire, quando si è i primi a non riuscirci fino in fondo. In qualche modo, senza volerlo, OBBLIGHIAMO gli altri a capire da uno sguardo, o da un atteggiamento e, se ciò non si verifica, la rabbia e la frustrazione prendono il sopravento, alimentando così un circolo vizioso che non trova tregua. Questo perché nessuno, fra coloro a cui si vuole bene, riesce a capire fino in fondo ciò che si vive, arrivando persino a identificarsi con la malattia: pensando di essere la "malattia", dimenticando che si è prima di tutto persone e che in quanto tali non possono essere "il DISTURBO bensì ciò che si riesce a realizzare anche attraverso la sua presenza nella vita. In altri termini, ciò che siamo diventati grazie alla sua presenza nelle nostre esistenze.
Come già affermato ciò che logora maggiormente chi soffre di Disturbi Alimentari è il senso di solitudine e di incomprensione. Un senso di solitudine che col tempo è capace di schiacciare dentro, di opprimere sempre più l’animo, in definitiva, il cuore. Una solitudine densa che non abbandona nemmeno quando si è circondati da persone che cercano di comunicare. Si sente troppo spesso soli nel portare avanti punti di vista e prospettive del mondo nelle quali ci si sente isolati. È come combattere, apparentemente insieme, contro un nemico che si manifesta con forme diverse per ognuno: per chi non soffre del disturbo esso si confonde con una scelta o un’inclinazione della persona, la quale invece si trova a combattere ogni giorno per uscire dalla prigione che si porta dentro, nel tentativo continuo e spesso vano di esprimere un estremo bisogno d’aiuto. Così, per chi soffre di DCA, diventa difficile e doloroso costruire e mantenere buone relazioni umane, perché nel farlo si ci trova a scontrarsi quotidianamente con la "NON ACCETTAZIONE" da parte di sé stessi e di ciò che si è veramente, prima ancora che con quella da parte degli altri. Ulteriormente chi si confronta con la realtà di chi soffre si trova in difficoltà quando si accorge del fatto che chi soffre di Disturbi Alimentari tende a identificarsi col disturbo stesso e può pensare che la persona si sia arresa e non desideri cambiare la situazione: un’ulteriore incomprensione che si aggiunge alle tante, determinando distanza e solitudine. Proprio per questo motivo è di fondamentale importanza il lavoro terapeutico condiviso in équipe nel quale vi è al centro la famiglia, le persone care vicine al paziente e il soggetto stesso il quale deve essere considerato parte attiva dello stesso percorso terapeutico. Nello stesso percorso è di fondamentale importanza il coinvolgimento diretto della persona, la quale deve essere informata sulle scelte intraprese al fine di costruire un percorso di cura condiviso. Il sostegno che arriva dai medici, dalle persone che vivono o hanno vissuto, la stessa condizione, dalla famiglia e dagli amici può essere la chiave di volta per guarire dai disturbi del comportamento alimentare: un problema semplice, ma di una sfida estremamente ardua che si può e si deve vincere per vivere al meglio la propria vita. In fondo guarire vuol dire non aver più bisogno di manomettere il proprio rapporto con il cibo e con il corpo. Un rapporto che perdurerà per molto tempo e Fino a quando si frapporrà qualcosa tra il paziente, il cibo e il corpo, fino a quando le paure, le angosce, i fantasmi, continueranno ad inquinare, a ingabbiare, la libertà di mangiare o di apparire, non può esserci guarigione. Questo al di là di ogni peso immaginabile, al di là di ogni abitudine alimentare. In altri termini, guarire significa non essere più costretti a ricorrere al cibo per assecondare le proprie aspettative di perfezione. Significa non dover più fustigare il proprio corpo per lenire le proprie colpe (chissà poi per quale reato commesso). Guarire significa essere liberi di entrare in risonanza con la propria anima, con la propria umana essenza, senza sentirsi troppo giudicati o in balia dello sguardo altrui. Guarire, significa dunque, liberarsi da tutti gli schemi comportamentali che ci fanno soffrire, potendo così raggiungere un rapporto sereno ed equilibrato nei confronti del corpo e del cibo. Guarire, infine, significa anche vivere le esperienze del quotidiano non solo come elemento minaccioso per il nostro equilibrio emotivo; bensì come parte integrante della nostra personalità. In altre parole, questi stati emotivi, non vengono più considerati minacciosi per la nostra salute psicofisica; piuttosto come fattori essenziali per entrare in contatto con la parte più profonda di sé: sé stessi.
Per far sì che la persona guarisca è fondamentale usufruire degli aiuti adeguatiI checonsistonoo , nel sostenere la persona a esprimere tutto ciò che la fa stare male. A tal proposito,uscirda unnDCAD non è impossibile, sebbene sia molto, molto faticoso, perché si deve cercare di trovare un equilibrio pergestire lepropriee emozionite. Questo però non significa che non bisogna impegnarsi per trovarel'equilibrio cheefaa alcaso proprio;;ma, non bisogna nemmeno pensare che è possibile uscirne da soli. È infatti necessario farsi aiutare da persone professionalmente preparae competenti,, capaci di comprendere e ascoltare le esigenze della persona che deve essere partecipe e attiva nel percorso di cura. In questi casi il lavoro in équipe è fondamentale e funzionale ai fini della cura. Solitamente in queste situazioni i professionisti a cui la personasi rivolgee e si affida, sono lo psicologo, lo psichiatra e un professionista della nutrizione,il dietologooo (questi sonoi più] importanti).Perr far sì che questo metododi lavoroosia efficace,, è necessario che i professionisti collaborino in maniera coesa e sinergica.E'’ inoltrenecessarior o che abbiano protocolli comuni da seguire, ma anche che facciano parte di un unico servizio: quello dei Disturbi del ComportamentoAlimentari. Servizi, che devono essere facilmente reperibili e presenti nelpercorso teraputico,,i qualiipossonoò presentare continui e repentinicambi d'orizzonte.. È inoltre fondamentale lavorare affinché, la rete dei servizisul territoriooo dedicati ai pazienti con DCA,sia capillarmentee presente e attivo nella lotta contro queste patologi
è inoltre fondamentale lavorare sulla prevenzione attraverso attività condivise sul territorio di sensibilizzazione. A titolo esemplificativo possiamo citare la sensibilizzazione nelle scuole, nelle quali è fondamentale ar conoscere non solo la presenza di disturbi come questi, ma anche i servizi che s i occupano di aiutare chi né soffre. Inoltre sensibilizzare, diviene un alto modo, un altro strategia per aiutare le persone più fragili ad aprirsi e se lo ritengono necessario chiedere aiuto. Per questa ragione p
Parlare dei propri problemi non è mai semplice, ancora meno, se il percorso di guarigione dalla condizione problematica non si è ancora concluso. Ed è proprio per questo che credo nel fatto che condividere con altri le nostre difficoltà, sia un'opportunità per trovare delle strategie di auto miglioramento. Sono sicura di quanto questo possa essere utile per tutti, per far conoscere agli altri quelli che sono gli effetti devastanti che questo disturbo provoca sul nostro corpo e sulla nostra mente. Penso che questo sia fondamentale, per è la chiave per poter incominciare quel lungo percorso di cambiamento, che si spera, possa aiutare a fuoriuscire dagli schemi del disturbo alimentare Ciò naturalmente non è assolutamente facile, anzi, spesso fa un male non indifferente, perché ci si confronta con il proprio passato e con ciò che ha fatto particolarmente soffrire. Tale difficoltà non riguarda solo il trattamento del disturbo dal punto di vista clinico, ma anche di quanto quest'ultimo sia ancora poco conosciuto e subdolo, proprio perché le dinamiche che comporta sono complesse; ed è per questo che si fa fatica a provvedere a cure idonee alle esigenze della persona. La difficoltà di trattarlo fa sì che egli possa continuare la sua devastante e silenziosa azione nella vita di molte persone. Questo perché il disturbo da un lato le rassicura e dall’altro le attanaglia Per questa ragione la sua individuazione può risultare alquanto complicata e, perché queste patologie vengano conosciute all’interno delle comunità locali, è necessario la realizzazione e diffusione di gruppi di auto-aiuto che si sostengono in maniera capillare sul territorio. La formazione di reti formali e informali non solo permette di sostenere le persone che soffrono di questi disturbi, ma da anche la possibilità di informare e di conseguenza formare la popolazione in merito a queste situazioni problematiche. Un altro modo per sensibilizzare è quello di diffondere la conoscenza dei DCA all’interno delle scuole e di tutti quei servizi pubblici e privati frequentati dai giovani. In questo modo non solo si sensibilizza le persone su quelli che sono gli effetti devastanti che queste patologie hanno sulla vita delle persone, ma si da la possibilità di conoscere le realtà che trattano e curano i disturbi alimentari. In altri termini, far conoscere realtà come queste, permette in un certo senso, di effettuare adeguate riflessioni sulle strategie di fronteggiamento, ma è anche l’occasione per realizzare adeguati spazi di condivisione in cui le persone possono reciprocamente sostenersi. Questo fa capire che più il problema emerge, più si hanno le risorse per poterlo affrontare, non solo con l’aiuto dei professionisti ma anche attraverso le reti del privato sociale. Reti che se diffuse capillarmente sul territorio permettono di raggiungere più persone possibili che soffrono di malattie come queste. Lavorare in stretta sinergia fra i servizi pubblici, il privato sociale e i singoli cittadini, permette di raggiungere un numero di persone maggiore, impedendo in questo modo di farle sentire sole e abbandonate a sé stesse. Quanto descritto è un metodo di lavoro che se portato avanti in maniera sistematica, coesa e sinergica con tutti i soggetti coinvolti permettendo così di mantenere al centro i bisogni della persona, rendendola attiva e partecipe in tutto il percorso di cura. In altre parole, questo approccio quello di Popolazione, permette all’intera comunità locale di far fronte a a queste fragilità considerandole non più solo dei singoli soggetti, ma di tutti (Beni Comuni), motivo per cui devono essere affrontati insieme ai cittadini. Fare rete fra le istituzioni pubbliche, quelle private e i comuni cittadini, è la strategia che bisognerebbe portare avanti sempre più nel futuro dei servizi socio sanitari e socio assistenziali indipendentemente dalla fragilità che si intende trattare. Al lavoro di rete e di comunità, va aggiunta la collaborazione delle reti dell’auto aiuto. Ed è in quest’occasione che si mette in pratica il così detto "Sapere Esperienziale" che aggiunto a quello professionale permette di realizzare servizi al pari dell esigenze delle persone. In altre parole, questi due saperi se integrati fra di loro, permettono di far sentire la persona compresa e ascoltata da un lato soddisfano le sue esigenze emotive; dall’altro rassicurano il professionista, che si può occupare della condizione clinica. Lavorare in questo modo permette di soddisfare in maniera più globale i bisogni e le esigenze delle persone che si rivolgono a un determinato servizio.
Il sapere esperienziale è considerato la base per promuovere "ben-essere" all’interno delle comunità di appartenenza, un approccio sviluppato fra la seconda metà degli anni '70 e degli anni 80. Esso è definito dalle scienze sociali col nome di "Recovery".
L’assunto di base del concetto di Recovery è il seguente: non si deve più dare per scontato che chi imposta, definisce e gestisce terapie, interventi riabilitativi, servizi pubblici e/o del privato sociale, sia l’unico ed assoluto depositario del sapere. è bene ricordare che nel percorso di cura devono essere attivamente coinvolti sia l’operatore, portatore di saperi teorici, dettati dal percorso accademico nonché dall'esperienza indiretta; ma anche e soprattutto, dall’esperienza diretta della persona. In quest’ottica il soggetto, non è più considerato parte passiva di un processo di cura; bensì attore attivo e partecipe. In questo modo si da la possibilità di scegliere liberamente, in scienza e coscienza, come agire nel percorso terapeutico. In altre parole attraverso la partecipazione diretta alle cure, si offre alla persona la possibilità di sviluppare “self-empowerment”: il potenziamento, personale e professionale, utilizzando al meglio le proprie capacità, energie e potenzialità. In altre parole significa diventare protagonisti della propria vita, saper essere innovativi e generativi, saper mobilitare il meglio di sé per esprimere al massimo il proprio potenziale. L’empowerment è un vero e proprio potere nelle persone che influisce sul loro sentimento di ben-essere e sulla percezione di auto efficacia Un potere che ha a che fare con variabili quali la motivazione, la sicurezza in sé, l’energia psichica, la tendenza ad un auto-controllo interno ben consolidato. Questa strategia è quella che permette di sentirsi sempre più inclusi nella comunità in cui si risiede. Tale approccio è dunque impostato sulla costruzione di nuovi paradigmi di intervento: dove la componente soggettiva e individuale ha un ruolo propositivo. Recovery ha dunque a che fare con le modalità con cui l’operatore si confronta con la domanda dei bisogni rilevati, non solo da parte di un’organizzazione dei servizi alla persona, ma anche e soprattutto, dai singoli soggetti. Risulta dunque fondamentale la consapevolezza e la necessità di mettere la persona in prima linea nella relazione d’aiuto e non considerarla dunque un soggetto passivo. Non è talvolta possibile continuare un percorso di Recovery, senza le risorse che il soggetto può trovare dentro di sé, grazie alla sua conoscenza della malattia in prima persona e dell’impatto interiore che essa ha avuto. Vi è quindi da parte del soggetto un "RIACQUISIRE SPAZIO" nella relazione terapeutica, ma non più e non solo come fruitore passivo di percorsi forniti da chi "SA COSA E' MEGLIO PER LUI", ma come soggetto che vede, vive, conosce la sua situazione e, in relazione a questa, è in grado di ridefinirsi, entrando contrattualmente e dialetticamente nell’operatività del processo terapeutico.
La Recovery permette dunque di conoscere un modo innovativo di ripensare la presenza dell’operatore, il quale viene visto in una posizione alternativa e complementare, in cui anche il "sapere professionale non solo viene utilizzato in chiave critica, ma viene messo in discussione, in quanto deve confrontarsi anche con l’esperienza soggettiva di chi vive in prima persona la cruda realtà di disagi così profondi. In sintesi l’applicazione della Recovery nel mondo della Salute mentale, risulta essere una soluzione idonea per "dare voce a chi non può esprimersi. Condividere la propria storia, il proprio dolore e le strategie attuate per poterlo affrontare, è fondamentale per migliorare, non solo la salute individuale, ma anche e soprattutto quella di tutti. La partecipazione diviene dunque un fattore imprescindibile per incrementare il cosiddetto "bene comune". Ed è proprio sulla scia di un approccio così innovativo che si intende farlo conoscere e applicare anche all’interno dei servizi che si occupano di cura i DCA. Si va sempre più pensando che il proprio sapere esperienziale possa apportare un contributo per i soggetti che, hanno vissuto o vivono, vicende simili. Raccontarsi significa anche riconoscersi e rispecchiarsi nella narrazione sentendosi più compresi e meno soli, rendendosi conto di non essere gli unici ad avere a che fare con la fragilità umana.
La missione dei professionisti che operano in questo campo, dei pazienti e dei famigliari sia proprio questa: quella di realizzare idonei spazi in cui la popolazione può accedere per ricevere aiuti adeguati e, soprattutto per scongiurare in tutti i modi di isolarsi ed emarginarsi totalmente dalla società. In ultima analisi condividere il proprio dolore con le persone che Ne hanno sofferto e che ne sono uscite, è uno dei primi passi, fra le strategie per incominciare a sentire meno il peso della sofferenza, il peso atroce che patologie come queste fanno sentire. Ed è per questo che chi soffrire di queste patologie conosce bene come il disturbo sia sempre lì in agguato, pronto a rubarti ogni speranza, ogni desiderio di combattere, di lottare per poter vivere fino in fondo. Lui è sempre lì, ti aspetta: sa colpire quando sei stanco, deluso, indifeso di fronte alle tue stesse paure. Il disturbo è un Taxi che ti offre a caro prezzo una finta difficoltà di fuga dalle tue angosce è sempre troppo tardi quando si ci rende conto di quanto la destinazione di quel viaggio sia un posto peggiore, dove solo gli echi del proprio dolore interiore riescono a bucare silenzi la cui coltre sembra estendersi in sé stessi. solo chi ha a che farci quotidianamente, può comprendere quanto in tutto questo, ci si sente soli oltre che incompresi da tutti. Per questa ragione è fondamentale la realizzazione di una rete di sostegno, capace di sostenere nei momenti di maggiore difficoltà oltre che aiutare a trovare strategie di risoluzione comuni. Strategie che da un lato possano funzionare su ciascun individuo, ma se condivise possono essere un supporto non solo a chi ne soffre, ma anche a chi giorno dopo giorno sta accanto al malato; perché questa è una patologia che come una sanguisuga colpisce dolorosamente anche chi non ne è direttamente affetto. In tal ottica condividere il racconto di chi soffre è fondamentale perché aiuta a non sentirsi troppo soli, ma soprattutto ad evitare il più possibile di percepire "odio" verso sé stessi, rimanendo ingabbiati, per un tempo indefinito, nelle grinfie della malattia.
Valorizzare le storie e le esperienze di chi soffre, permette inoltre di dare il giusto peso ad emozioni, racconti e attimi che cambiano profondamente intere vite oltre che intere famiglie. Trovare strategie di fronteggiamento condivise significa creare il fronte comune in una battaglia senza esclusione di colpi, dove chi resta solo rischia di perdersi, naufragando in un abissale mare. Spesso è un racconto particolareggiato e pieno, fatto di una massa di parole, cibo, emozioni. Fatto di esperienze non assimilate e digerite. Spesso è fatto di FAME, che si traduce in "mancanza", in "assenza".
La condivisione è pertanto considerata come una rete, una trama di un tessuto più grande; lo stesso che è in grado di reggere e contenere emozioni, parole, azioni Uno spazio e un tempo in cui apprendere che il nucleo identitario, frammentato e collettivo, può evolvere verso una maggiore integrazione di Sé col mondo circostante. Ed è alle emozioni sottostanti che bisogna mirare, ad una lenta destrutturazione delle gabbie mentali e ad una continua ricostruzione e rinascita della vita. Tutto questo è sì amplificato e complesso, ma possibile proprio grazie al rispetto delle diversità, nel riconoscimento del proprio dolore nell'esperienza altrui. La malattia è dunque, la miglior forma di adattamento che la persona trova per reggere il proprio dolore. Essere meno capace di connessione, infatti, chiude il corpo, chiude noi stessi, dall’accesso alla risonanza positiva. Limita le prospettive e le opportunità che la situazione ci offre.
Non è il dolore, infatti, a vincere. è la perdita della fiducia negli altri, la perdita di una visione ampia delle cose.
Quando rimaniamo sintonizzati con tutte le sfumature della situazione e in contatto con gli altri, quando non ci si identifica con le nostre emozioni difficili, ma non le neghiamo, non facciamo altro che portare il potere della condivisione in ciò che ci accade. Quando pratichiamo il potere della condivisione compiamo un atto estremo di riconciliazione: con sé stessi e con gli altri.
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