L’ARRAMPICATA SPORTIVA: LO SPORT COME FORMA DI RISCATTO
MI PRESENTO
Buon pomeriggio a tutti,
Sono Xheka (Giona) Haxhiraj,
una ragazza di quasi 25 anni (gli compio il 02 agosto)originaria dell’Albania, anche se vivo in Italia da più di vent’anni. Attualmente risiedo in trentino, luogo in cui sono stata accolta al mio arrivo in Italia, dove sono cresciuta costruendo legami, distruggendone altri, incontrandone di nuovi, lasciandomi il segno nel profondo del cuore. In un certo senso non mi sento sufficientemente albanese, come non mi sento sufficentemente italiana, ma mi sento appartenere a un territorio, a una comunità, o forse più comunità che mi hanno accolta, accompagnandomi, guidandomi lungo il corso della vita.
per tanto tempo ho vissuto con i mii genitori a Riva del Garda, una splendida cittadina situata sul lago di Garda. Da pochi mesiperò, risiedo a Rovereto, che si tra sempre in provincia di Trento, insieme al mio ragazzo, anch’egli non vedente.Abbiamo scelto questa città per ragioni di accessibilità: Rovereto risulta essere un po’ più fruibile rispetto a riva per chi non ci vede e non ci sente: ma soprattutto per chi vuole condurre una vita il più possibile autonoma e indipendente.
Sono portatrice di una sindrome rara: la sindrome di Alstrom. Una patologia che comporta la perdita di vista e udito, nonché una serie di complicazioni organiche che variano a seconda delle caratteristiche di ogni individuo. Per questa ragione dal 2009 sono portatrice di impianto cocleare bilaterale: il primo, operato nel 2009 a sinistra e il secondo, nel 2010, a destra.
Il percorso è stato molto lungo e doloroso, ma col segno di poi, possiamo affermare con certezza che è stata la scelta più azzardata che si potesse intraprendere. Perciò possiamo confermare che, sebbene il decorso riabilitativo, è lungo e tortuoso, gli esiti che questo percorso ha portato sono stati più che soddisfacenti. Questa è la prova che con costanza e determinazione gli sforzi vengono ripagati.
Sono utente della Lega del Filo d’Oro dal 2008 e faccio parte della Sede Territoriale di Padova dalla sua apertura (avvenuta nell’autunno del 2015). In questo modo, ho avuto e ho, la possibilità di partecipare a diverse attività proposte dalla fondazione: sia di carattere territoriale (come, per esempio,giornate di socializzazione sul territorio, incontri con volontari, etc.…) che nazionale (come la partecipazione alle Conferenze Nazionali delle persone Sordocieche, incontri tematici su temi legati al mondo della sordocecità, soggiorni estivi nazionali, etc.…). Fra le varie attività in cui sono coinvolta vi è quella legata alla sensibilizzazione: non a caso svolgo un’ampia e proficua collaborazione con il settore “Comunicazione e raccolta fondi” della Lega del filo d’oro. Come dicevo questa collaborazione ha come obiettivo principale quello di raccontare una storia: la mia, quello di una persona sordocieca, che possiede non solo limiti, ma anche risorse e potenzialità. In altri termini, quello che si cerca di ribadire è che tutti, nessuno escluso, abbiamo delle risorse: che spesso devono essere scoperte, potenziate e valorizzate. In sintesi: dare valore alla propria vita, è in fin dei conti, dare valore a quello che si è, a quello che siamo e, in definitiva, a ciò che ci portiamo dentro.
Infine, ma non per importanza, dal gennaio 2018, partecipo in qualità di Membro, ai lavori istituzionali del ComitatoNazionale delle Persone Sordocieche. Quest’organo è composto da un gruppo di persone sordocieche, che si riunisce per individuare e, di conseguenza raccogliere, quelli che sono bisogni, esigenze delle persone sordocieche. Inoltre, il Comitato si occupa in quanto organo propositivo, di avanzare proposte per il miglioramento dei servizi presenti al suo interno.
Sono studentessa presso il Corso di Laurea in Servizio Sociale dell’Università degli Studi di Trento. Questo corso di studi permette di formarsi per operare nell’ambito dei servizi sociali e l’ho scelto perché mi è sempre piaciuto lavorare insieme alle persone; ma un’altra ragione, più profonda, che ho acquisito durante la formazione, è legata a una mia personale lettura del funzionamento dei servizi. Mi spiego meglio: da sempre rilevo una carenza da parte di servizi socioassistenziali e sanitari, di coinvolgere in maniera attiva e propositiva nei progettisocioeducativi/riabilitativi. Con questo non voglio dire che tutto non funzioni, anzi, ci sono realtà che sono all’avanguardia da questo punto di vista. Mi riferisco piuttosto, a realtà in cui questo si fa fatica ad attuare. Ebbene sì, il mio più grande desiderio, come disi in un recente video è che “si ponesseattenzione per tutti”, indipendentemente dal contesto in cui si opera. Ma ancora di più, quello che sogno, è di incontrare una realtà che sappia mettere al centro la persona, e in particolare, la sua esperienza, lo scopo, l’obiettivo, ma forse la sfida è che il sapere di entrambi (professionista e persona coinvolta) sappiano metterli in sinergia fra di loro.
Per quanto riguarda le passioni, ne ho tante e variegate: mi piace leggere un po’ di tutto, l’importante che le storie siano realistiche e che segnino nel profondo; mi piace scrivere un po’ di tutto: poesie, pensieri, riflessioni, tutto ciò che mi salta per la testa devo cercare di metterlo nero su bianco e mi piace ascoltare musica: anche in questo caso ascolto un po’ di tutto, anche in base a ciò che sento al momento. Un’altra grande passione che mi porto appresso fin da bambina è lo sport: ho seguito un po’ di tutto, dal calcio, al nuoto, all’atletica leggera. Non importava che cosa fosse, quel che importava era seguirlo e fare il tifo per un giocatore, piuttosto che per un altro. Con passare degli anni, vivendo in trentino, ho incominciato ad appassionarmi alla montagna, in particolare agli sport che questa poteva offrire,. Ed è stato proprio in quell’occasione che ho scoperto l’arrampicata sportiva: è stato amore a prima vista. Come l’ho provata ho capito che quello sarebbe stato pane per i miei denti, perché rispecchiava ciò che sentivo e che mi portavo dentro.
IL MIO PRIMO APPROCCIO CON LO SPORT
Sono qui per raccontarvi come è iniziato il mio rapporto con lo sport. Prima di incominciare, mi preme fare una doverosa premessa:
per me non è facile parlare di quest’argomento, perché vi associo non solo momenti felici e spensierati, ma anche situazioni che suscitano emozioni contrastanti fra di loro, nonché difficili da comprendere fin in fondo. Sì, lo sport come il cibo, per molto tempo, è stato il mio modo di sfogarmi, il mio rifugio in cui esprimere ciò che sentivo (e sento) senza dover utilizzare le parole per dare spiegazioni alle persone che mi stano vicino. Spesso, quest’ultime, diventavano i miei muri, le mie fortezze in cui rifugiarmi, in cui nascondersi quando le cose diventavano difficili, molto complicate. In un certo senso, muovermi, fare sport, era ed il mio MODO, la mia STRATEGIA per sopravvivere anche quando tutto si faceva complicato: lì riuscivo a lasciar andare tutto ciò che mi faceva stare male.
Detto ciò, il mio percorso con lo sport è incominciato molto presto: avrò avuto all’incirca 6 o 7 anni quando una mia insegnante di sostegno suggerì alla mia famiglia di farmi fare dello sport. La ragione di questi consigli si verificava per via delle mie condizioni fisiche. Non a caso, fin da quando ne ho ricordo, sono stata una bambina robusta, amante del buon cibo e delle coccole che spesso si ricevono attraverso il cibo. Sì, infondo quello era il mio modo per attirare l’attenzione, o comunque per comunicare col mondo circostante. Una strategia che ho portato avanti per molti anni e, che ancora oggi, in molte occasioni utilizzo quando non riesco a comunicare con gli altri, o quando non riesco a trovare una modalità per esprimere ciò che sento. Per tutte queste ragioni, e non solo, che mi consigliarono di praticare dello sport, ma non è stato per niente facile trovarne uno che mi facesse stare bene: mi ci è voluto tanto, troppo tempo e pazienza per riuscire a trovare una dimensione che potessi sentire mia e, che in qualche modo, potesse rappresentare ciò che ero e che mi portavo dentro. In qualche modo, cercavo uno sport che rispecchiasse la mia essenza, il mio animo. Per trovare ciò che facesse al caso mio ho dovuto faticare molto, frequentando sport di ogni genere: sono passata dalla danza classica, al Judo, al nuoto. Ciascuno di questi mi piaceva, ma dopo un po’ di tempo incominciavano ad annoiarmi così tanto da abbandonarli nel giro di qualche anno. Un bel giorno, ebbi la fortuna di incontrare qualcosa che miavrebbe potuto regalare qualcosa di nuovo, di unico: si trattava dell’arrampicata sportiva. Sport in cui vi trovai ciò di cui avevo bisogno. Sì, quello era ed è lo sport che mi rappresenta per il carattere tenace e testardo che da sempre mi caratterizza.
COME’ E’ COMINCIATA?
Sono sempre stata una grande sognatrice, ma gran parte dei progetti che ho incominciato, sono nati per caso. Ed è andata così anche in questo caso: avrò avuto sì e no 13 o 14 anni e una mia educatrice domiciliare dell’epoca mi parlò di una giovanecoppia che aveva conosciuto tramite il suo ragazzo. Mi raccontava che loro frequentavano un gruppo della S.A.T.(Società Alpina tridentina) di Arco. Questo gruppo si chiamava “Oltre le Vette” e aveva come obiettivo quello di accompagnare persone con disabilità visiva e altre difficoltà in montagna.Questo gruppo ogni estate, proponeva dei corsi di avvicinamento all’arrampicata che ho frequentato anch’io per molti anni. Decisi così di parteciparvi in occasione dell’inaugurazione di una palestra la roccia: la SambàPolis. Quella sera ebbi la possibilità di provare a scalare e rimasi piacevolmente sorpresa della serenità con cui riuscivo a viverlo: mi aggrappavo alle prese come se le conoscessi da una vita e mi appendevo alla corda come se avessi già affrontato la paura. Sì, compresi subito che io e le corde avremmo ben presto fatto amicizia. Non sapevo come avrei fatto, ma io sapevo con convinzione che avrei continuato a scalare. E quante vie abbiamo superato da quel giorno: tante, tantissime. Abbiamo affrontato di tutto, compreso il cambio di più di una guida alpina. Questo perché queste persone svolgono una vita per cui non riescono a seguire i loro clienti in maniera costante, cosa di cui sentivo la necessità fin dall’inizio. Per questo ho dovuto pazientare un bel po’, prima di individuare una persona che potesse guidarmi in parete. Negli anni in cui non avevo nessuno, scalavo solo d’estate, solo col gruppo, ma mi bastavano per percepire il desiderio di voler continuare anche al di fuori del corso. Ma finalmente, nel 2018 ho conosciuto un ragazzo, che mi ha insegnato i rudimenti di questo sport. Purtroppo, ho dovuto sostituirlo con un altro, perché lui non era disponibile, ma chi l’ha susseguito mi ha accompagnato per un anno e mezzo. Con mio rammarico, in questo momento sono ferma, perché le guide che conosco sono impegnate e non riescono a seguirmi con costanza. Speriamo che in un futuro le cose possano andare meglio.
PERCHE’ L’ARRAMPICATA?
Diverse sono le ragioni per cui sono fortemente legata a questo sport, ma la motivazione principale è che arrampicare mi aiuta ad analizzarmi maggiormente, tenendo conto non solo dei miei limiti, ma anche delle mie risorse e potenzialità.
L’arrampicata è dunque un'attività che mi ricarica, rendendomi viva, offrendomi anche occasioni di svago, in cui la negatività rimane sullo sfondo, per far spazio alla positività, alla forza e alla determinazione. Caratteristiche che mi rappresentano anche nei momenti più bui. Ed è proprio la sensazione di libertà e di autonomia che mi dà la possibilità di affrontare anche quei momenti, quelli più difficili. Mi auguro dunque che quest'attività possa continuare a influenzare positivamente la mia vita regalandomi squarci di gioia e serenità. Ingredienti fondamentali per affrontare i momenti più difficili.
D’altronde lo sport negli anni mi ha aiutata molto sul fronte psicologico. Per me scalare era diventato terapeutico, nel senso letterale del termine: quando arrivavo mi ritagliavo uno spazio per me, che mi permetteva di vivere uno spazio tutto mio. Uno spazio in cui non pensare a nulla, se non a scalare. Uno spazio che non è solo fisico, ma anche interiore, perché ti permette di confrontarti con le tue paure, con le tue fragilità senza alcuna possibilità di poterle evitare. No, quando scali, non puoi evitare te stesso i tuoi limiti, le tue paure, le tue ansie, emergono tutte insieme. E tu non puoi evitarle: no, loro sono lì che con te si vogliono e si devono confrontare. Non col tuo compagno di cordata, no. Solo ed esclusivamente con te, per cui non hai scampo, devi lottare, combattere e affrontare ciò che sono le tue stesse fragilità, le tue stesse paure.
Da quando ho incominciato questo sport, sono sempre più convinta di quanto l’arrampicata abbia un effetto terapeutico, non è infatti un caso, che si incominci a parlare di “Climbing Therapy” (Arrampicata Terapia). Talmente terapeutico, da essere considerata una disciplina “democratica”, in cui limiti, obiettivi, successi e fallimenti sono diversi da persona a persona e, in quanto tali, vengono affrontati diversamente.
Arrampicare permette di esperire, in modo intenso, completo e in pochi metri di scalata, la sintesi del lungo processo psicoterapeutico.
Un processo suddiviso in una serie di obiettivi intermedi che portano al raggiungimento di obiettivi finali, come ad esempio il raggiungimento di una capacità autoregolativa, la trasformazione di dinamiche di dipendenza in dinamiche di interdipendenza, l'individuazione, il dover affrontare varie difficoltà per esprimere ciò che la persona è. Un processo costellato da imprevisti, difficoltà, regressioni, resistenze e relazione. L’arrampicata è tutto questo tradotto in esperienza corporea, emotiva e relazionale. Il procedere con le proprie forze contattando la paura, il vuoto, i propri limiti, il raggiungere lo spit che dà sicurezza per continuare gradualmente verso l’obiettivo successivo al fine di arrivare in catena, al top e liberare la via, è “l’esperienzalizzazione” del procedere del percorso terapeutico. E! tutto questo non avviene nella solitudine, ma insieme all'altro. Un altro da cui non si dipende, ma che sostiene nella salita e che fa sì che l’eventuale caduta non sia rovinosa e che aiuta a
ripartire. Così si arrampica imparando ad ascoltare il corpo, i limiti, le emozioni, cercando soluzioni alle difficoltà della via, fronteggiando le paure, dosando le forze, integrando il corpo, la mente e l’emotività. Si riesce in questo modo ad autoregolarsi, facendo sì che lo stare, l'essere non dipenda dall'esterno, da un sintomo, ma da sé stessi. In questo modo si libera la via, divenendo sempre più autonomi e indipendenti. Ognuno stabilisce un proprio, personale obiettivo e, ognuno, impara che per raggiungerlo, non sempre la strada più scontata, è quella migliore. Man mano che si sale, si capisce qual è il miglior percorso da fare per raggiungere la meta che ci si è prefissati. L’arrampicata terapeutica è un’esperienza che ti fa, tra l’altro, scoprire che i limiti posti dall’esterno, possono essere affrontati e superati. Questo trasmette un senso di maggiore sicurezza, rispetto a quello che davvero sei in grado di fare. Ogni volta puoi porti un nuovo obiettivo. La sensazione di soddisfazione, che provi, si ripercuote nel quotidiano.
È un modo per scoprire le potenzialità che ciascuno possiede. Quando torni a terra tutto sembra molto più semplice. Ti rendi conto che puoi fare cose che nemmeno ti immaginavi.
L’arrampicata aiuta ad affrontare la vita perché, come nella vita, anche nell’arrampicata ti poni degli obiettivi, che puoi raggiungere: impari ad accettare la sconfitta. Impari ad essere onesto con te stesso, confrontandoti sempre di più con quello che ti porti nel più profondo.
Vi ringrazio per la pazienza nell’avermi ascoltata e sono a disposizione per ogni eventuale domande, dubbio, chiarimento…
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