venerdì 23 agosto 2024

un bisogno esistenziale: senza la narrazione del mio vissuto, delle mie battaglie, non riesco a vivere!

 sono qui sul letto, nel tentativo di trovare le forze, l'energia per andare avanti. e improvisamente, guardando alcuni video di una persona che ho conosciuto ad alcune manifestazioni del Fiochetto Lilla,  quel freddo che mi portavo dentro improvisamente mi si è sciolto tutto. è come se avessi bisogno di vivere relazioni intense, di vivere contatti forti che possano darmi emozioni. non mi basta stare accanto a qualcuno che mi vuole bene. sì, so che che se ho bisogno c'è sempre, ma ho bisogno di fare il colmo di emozioni. e pur di sopravivere, di resistere, mi congelo dentro al mio guscio di fatica, di sofferenza. so che vivere quell'emotività significa metersi in discussione, provarci, ma so perchè mi tengo aganciata alla mia sofferenza: lei mi sostiene, mi tiene in piedi, mi ricorda che ho bisogno di vivere e non sopravivere. sì avere contatto con la mia sofferenza, con il mio casino interiore, è un modo per resistere, per fare i pugni con la vita, cercando di avercela vinta. la verità è che fin a quando farò i pugni con me stessa, con la vita, e non mi darò la possibilità di lasciar andare quel casino, dentro proverò solo freddo. quel freddo che ho sentito in tutto questo tempo. il freddo che sento ogni mattina (quando mi alzo, dopo le notti insoni). e allora mentre sono qui, qui sul letto, dopo che ho visto quei post, dopo che ho letto righe di emozioni, ne ho fatto il pieno e allora le lacrime sono uscite. finalmente cazzo: era mesi che avevo bisogno di piangere. di piangere non solo di rabbia, di dolore, di paura. no, quando sento quei vissuti non riesco nemmeno a piangere. tutto diventa freddo, duro, rabbioso. ma poi basta così poco per trasformare il casino interiore e piangere di nostalgia, di gioia, ricordandomi che la vita nonostante tutto va avanti. solo che a volte ti sembra di trascinala, quasi come se dovessi tirarti dietro il peso del casino che hai dentro. e quanto pesa a volte quel casino? tanto, troppo. così tanto che pensi di non meritarti nemmeno di vivere. e quando accade, quando hai la sensazione di morire, vorresti che accadese il più presto perchè tutto ti sembra insignificante. poi bastano quelle righe, quell'emotività, quel casino di vissuti intensi che ti senti a casa, che ti senti aposto. naturalmente la fatica la senti, perchè come fai fatica a vivere il freddo della depressione, al contempo fai fatica a portarti dietro il casino delle emozioni forti; ma non importa. quello che importa è che per un attimo, anche solo un attimo, ho vissuto emozioni diverse, quelle che in genere mi fano bene al cuore. sì perchè di questo sento bisogno: di cose che mi fanno bene al cuore, che lo curano quel cuore che forse si sente troppo sballotato dalla fatica del quotidiano.

e allora capisco perchè porto avanti quelle battaglie personali: il riconoscimento della mia patologia, del mio vissuto e di ciò di cui ho bisogno, come l'importanza di integrare la realtà medica con quella umana, psicologica e sociale, o comunque la mia lotta per rendere una medicina più umana e accogliente. sì forse quelle battaglie che sono personali, ma anche collettive, sociali, mi portano a pensare che sono ragione di vita non solo perchè ci credo, perche mi hanno distrutto emotivamente, ma perchè penso che grazie a queste lotte, battaglie interiori e non solo, mi sento viva.

spegnermi la speranza di poter rendere il mondo socisanitario e socioasistenziale migliore è come togliermi la speranza di vivere. perciò si so che fare quelle battaglie, diventate ragione di vita, sono un fortissimo rischio per la mia salute, ma senza quelle battaglie, senza quel mettermi a rischio, senza la sofferenza non riesco a sentirmi viva. il problema è che a forza di fare a pugni con la vita, non sono più capace di continuare a stare male, a combattere senza sentirmi ascoltata, considerata e riconosciuta per quelo che sento dentro. sì, in un certo senso, la solitudine, il peso della soferenza, mi portano a doverla fare con altri quella battaglia. e forse non tutti sono disposti a mettere a repentaglio il proprio cuore e la propria vita per portare avanti quella lotta collettiva, che riguarderebbe tutti: operatori sanitari, del privato sociale, persone e famigliari. e forse per questa ragione mi ritrovo a essere sola, a combattere perchè più persone possibili, non passino mai quello che ho passato nella mia vita. No, nessuno deve essere trascurato, non ascoltato e sopratutto ignorato. nessuno deve e può essere violentato da chi ha potere: che sia un medico o qualsiasi altro professionista della salute. no, nessuno può e deve passare la merda che ho atraversato io: ognuno deve essere preso in carico per quello che è il suo problema, senza sentirsi ignorato, oppure senza sentirsi dire che il suo problema non è "Abastanza grave" per essere considerato. No, nessuno deve e può essere lasciato in dietro perchè ha una patologia per cui (prima vengono gli altri e poi tu). no, nessuno e ripeto, nessuno deve e può passare ciò che ho vissuto io. per questo non posso mollare la mia sofferenza, perchè lei mi ricorda la mia missione, il mio scopo esistenziale. sì, perchè quella battaglia, quella lotta che considero collettiva, per me non è solo una questione di principio, ma un bisogno esistenziale, la cosa che mi rende viva: sì, parlare di Dca, di medicina narrativa, di una medicina incentrata sulla persona e non solo sulla malattia, sono quelle cose che mi aiutano a rimanere in piedi. per questo devo continuare a parlarne, a scriverne, a confrontarmi con chi è adetto ai lavori. perchè se smetto di tenermi in relazioni, di communicare e sopratutto di comunicare su questi temi, dentro mi sento morta.

sì questo è il mio compito, il mio ruolo: parlare, parlare di questi argomenti, condividere la mia storia e farlo con chi ne ha bisogno, perchè parlare di me, di ciò che vivo, di temi legati alla crescita personale e non solo è ciò che mi fa sentire viva.

mercoledì 21 agosto 2024

Siamo tutti uguali: anche chi non vede forse lavora, forse non ha tempo come un normale comune mortale!

 avere una o più disabilità a volte pesa: sopratutto se chi ti sta vicino, te lo fa pesare. non parlo dei miei famigliari, nenchè meno del mio ragazzo, piuttosto della società in cui siamo inseriti. spesso si pensa alla persona disabile come quella persona che non può sbagliare, che non può essere stronza o comunque che a quanto pare non possiede una sua morale, fatta anche da scelte non sempre acettate e comprese datutti. ma ciò che spesso mi ferisce di più, è che a quanto pare le persone con disabilità (sopratutto non vedenti, o con disabilità sensoriale) debbano sempre organizarsi, o comunque sembra che loro non lavorino, non abbiano un tempo libero e che per farsi aiutare devono stare dentro gli schemi imposti da chi vuole ofrire quell'aiuto. in certi casi è giusto, necessario organizzarsi, ma in certi casi non ne capisco la necessità: sopratutto quando quest'esigenza dipende dalla scarsità della propria attività comerciale. sì, di recente ci è capitato di sentirci dire che dobbiamo chiamare prima, che dobbiamo organizzarci prima per fare la spesa, come se non potessimo avere un briciolo di normalità, di spontanetà, di vita vissuta come tutti. e poi, scusatemi, ma tu che mi dici che hai bisogno di organizzarti, ingenere quando vai a fare la spesa, non ti capita di andarci all'improvisso, mentre sei in giro e stai facendo tutt'altro? non sarà forse un diritto anche delle persone con disabilità andare a fare la spesa come tutti, con naturalezza, spontanetà e a caso, come capita a tutti? forse no, perchè tu sei "disabile", non hai il diritto di fare la spesa come tutti. no, tu che hai una disabilità, forse non lavori, forse non fai un cazzo durante il giorno e poi il tempo per fare tutto non sarà forse poco come te che lavori in un supermercato?

questo discorso per dire che è vero non si ci può lamentare, ma a volte, ho l'impressione che chi non è al tuo posto, chi non ha mai provato a essere non vedente, non udente, forse non avrebbe il diritto di dirti qualcosa. dovrebbe secondo il mio parere vivere quella situazione, tenendosi sugli occhi una benda o dei tappi nelle orecchie per una settimana, senza mai togliersela. soloallora secondo il mio modesto parere avrà il diritto di parlare, di dire la propria e sopratutto di non giudicare le vite degli altri. e comunque anch'io persona con disabilità lavoro, studio, vivo e non ho tempo come tutti. quindi acetta che arrivi in ritardo, che arrivo all'ultimo, che non c'è la possa fare e sopratutto invece che dire dei "sì" per acontentarmi, dimmi dei "no" chiari. poi sarà responsabilità mia acettarli come rifiutarli e trovare delle soluzioni diverse, come per esempio venire in cassa e chiederti all'ultimo di cosa ho bisogno. d'altronde volevo facilitarti la vita, ma come al solito non sei stato/a capace di guardare il bichiere mezzo pieno: anzi, non hai fato che lamentarti subito per 3 cose ordinate prima al telefono. Per fortuna il mio ragazzo (coinvolto in questa vicenda) non ha detto nulla, perchè forse da parte mia un paio di ceffoni metaforici gli sarebbero arivati in faccia, perchè nessuno può permetersi di tratarci diversamente dagli altri, anche perchè c'è un mondo intero che non fa altro che ricordarti che tu sei un peso, proprio per via della tua disabilità. perciò, cari comercianti, pubblici uficiali, impiegati, pensateci quando avete davanti qualcuno con dificoltà: nella magior parte dei casi chi è li a intercetarvi sarebbe ben contento di non chiedervelo, quindi avete almeno la decienza di andarli in contro, cosa che spesso, se si rimane tranquilli, anche noi vogliamo. vogliamo solo raggiungere l'obiettivo e lasciarvi in pace con il vostro casino. insomma non vuole di certo importunarvi e rompervi i coglioni. perciò se farete del bene, riceverete bene; se invece farete gli imbecilli, non farete altro che ricevere ciò che è di Cesare. in altri termini, non può essere colpa di un vostro cliente se non riuscite a servirlo: quando arriva uno che ci vede che fate? lo mandate via dicendogli che se chiama prima lo potrete aiutare, perchè potete organizarvi prima? no. come chiunque lo soddisfate, fermorestando che anche quel cliente di turno, il bastardo non vedente, forse vi sta pagando come tutti?

pensate prima di parlare o comunque prima di dire qualunque stronzata, che forse chi sta zitto campa 100 anni.

sabato 3 agosto 2024

Il diritto di scegliere, di prendere decisioni che non sempre gli altri comprendono!

vorrei urlare basta: basta a chi si dimentica che hai il diritto di scegliere. sì avere una o più disabilità, spesso porta le persone a far scegliere per te, come se questo fosse la norma. è ciò che è peggio è che non solo scelgono/decidono per te, spesso sanno loro cosa è giusto per la tua vita: loro sanno cosa devi fare, come ti devi comportare e sopratutto secondo loro se non sei perfetto, se non sei come vogliono loro, non vai bene. sì da una vita ho avuto la sensazione che qualsiasi cosa facessi (e ancora faccio) non andasse bene: come se qualsiasi scelta, decisione, non fosse abastanza. tu non sei suficientemente abastanza bella, abbastanza brava, abastanza ordinata. insomma come se tu non fossi perfetta, perfetta come gli altri all'esterno ti devono vedere, perchè tu non sei da meno. non è che se sei disabile sei meno perfetta degli altri. il problema è che ognuno fa le sue scelte, porta avanti la sua vita, e sopratutto ha prorità diverse. magari a qualcuno interessa troppo l'imagine corporiea, come ti vesti, come ti petini, per qualcun altro è più importante come ti senti, cosa pensi, cosa desideri. sì spesso mi sono trovata a questo bidio, in cui le mie priorità erano diverse. ma il problema è che sembra che il mio punto di vista, il modo in cui vivo le cose, l'importanza diversa a cui do peso, sono diverse da chi mi vuole bene. il problema è che per acontentare chi mi vuole bene, per non sentirmi meno degna d'amore, e non arrivare a un confronto aspro, ho sempre cercato di fare quello che volevano (e vogliono gli altrì: ora non c'è la faccio più, prima degli altri, vengo io. vengono i miei bisogni, i miei desideri e ciò che sento dentro. non so bene come mai, ma a un certo punto ho capito che acontentare chi voglio bene, non mi rende felice: anzi mi sento ancora più dentro a una gabbia da cui non riesco a uscire. solo che a forza di sentirmi in questa gabbia, finisco per stare così male da non tratenere più la rabbia, il dolore. a un certo punto, pur di farti capire che stai esagerando ti rispondo male, rovesciandoti adosso quello che penso. il problema è che facendo così si crea un conflitto fatto non più di parole, ma di silenzi. e forse sarà stato il fatto che a un certo punto ho incominciato a fare di testa mia, a ignorare i bisogni di tutti, la necesità di acontentare chi voleva qualcosa da me, ma di fare ciò che sentivo, che non riesco più a ignorare i miei bisogni. un po' come è stato per la gravidanza: a un certo punto che piacesse o no, sono andata avanti per la mia strada. ciò non vuol dire che si esenti dalla sofferenza, ma significa essere consapevoli che pur facendosi tanto male, cerchi di vivere fino in fondo: anche quando vivere significa fare scelte difficili, complicate e non sempre comprese da chi ti sta vicino, nonchè dai professionisti che ti seguono. ma ancora una volta, ciò che mi dico, è che acontentare gli altri lo fatto per una vita intera, ma non mi sembra abbia dato grandi frutti: perciò scelgo di accontentare me stessa e giusto chi ho scelto di avere al mio fianco

un groviglio di emozioni: i vissuti degli ultimi tempi!

sento freddo ai piedi, un po' come sento fredno nel cuore. gli occhi piangono, il cuore mormora ciò che mi trafigge. ho paura, ho paura del giudizio degli altri e allora proteggo il mio dolore. ho paura di sentirmi ancora ferita, ma nessuno può saperlo. ho paura di essere giudicata nelle mie scelte, ma ho solo bisogno di fiducia. di sentire quella fiducia che sento sempre più sgretolare sotto i miei occhi e chi non comprende, chi non capisce, chi dice che faccio scelte scelerate, come se non fossi consapevole dei rischi, sta sbagliando. cavoli, ho solo bisogno di vivere, di sentirmi viva, ma poi alla fine dentro mi sento morta. la stessa morte che ha saputo atraversarmi in un anno così complicato e difficile. perdere uno zio, il tuo punto di riferimento, il tuo "quasi" papà, nonno, fratello, amico, è dolorosisimo. la vita dicono tutti va avanti, ma nessuno pensa che dentro ti senti a pezzi: ti senti distrutto. provi a pensare che stai vivendo qualcosa di forte e pensi che sia lui (da là su) a regalarmi tante cose belle, tanta protezione eppure dentro mi sento a pezzi. Quando si perde un figlio tutti ti dicono che ne farai un altro, ma nessuno sa che magari quell'altro non può venire oppure non sa quanto per chi ha una sindrome rara come la mia, cosa vuol dire. e poi ci sono i medici che usano parole fredde, come rischi, controindicazioni, pericoli, che si dimenticano del cuore. quel cuore che ora si sente distrutto, che dentro sente di aver perso un'opportunità. ma per me l'oportunità più grande per ora è crescere grazie a quest'esperienza e continuare a vivere giorno dopo giorno. lo devo a me stessa, a mio zio e alla creatura che ho portato dentro: devo provare a cambiare ciò che mi fa stare male. e ci sto provando cavoli. ci cavoli, ci provo a fare del mio meglio per stare bene, per provare a non farmi divorare ancora una volta dal desiderio di mollare tutto. mollare tutto come feci in quel anno che mi ha fatto stare a letto sempre. ho paura di ricaderci ogni volta, perchè so cosa vuol dire non avere la forza di vivere. so cosa è la depressione e ho sempre paura di ritrovala.

sì nel 2021 appena uscita di casa, dopo quel periodo terribile che vivevo a casa dei miei, pensavo che le cose sarebbero andate meglio, invece non è andata così. per un anno intero (e non scherzo) non sono riuscita più a fare niente e poi quando provai a dare quell'esame preparato in poco tempo sentii che non c'è la potevo fare. e allora da li non ci ho più provato. in quell'anno sono stata leteralmente a letto (uscivo per il minimo indispensabile ma non riuscivo a fare nulla), oggi invece riesco almeno a tenere attive le piccole cose, quelle che mi dano vita, che mi fanno sentire viva. quelle in cui c'è qualcuno che mi aiuta, che mi sostiene nel svolgere quell'attività. e allora come dicevo quando ci sono gli altri rendo meglio: perchè la mia convinzione è: da sola non c'è la posso fare, non c'è l'ho mai fatta. la verità è che certi cambiamenti come quelli della salute, gli ho fatti totalmente da sola.. e allora forse la questione è crederci. credere che posso farcela, che posso fare la differenza. stasera ho contattato una persona che ho coivolto pio l'ano scorso in servizio civile, dicendomi che un'attività che avevo messo in piedi sta andando avanti. ciò mi ha dato gioia e ho detto: allora forse sono riuscita a lasciare il segno. e la persona mi ha risposto: ma tu lasci il segno un po' da per tutto. mi ha fato piacere, non solo perchè si è tenuto conto del lavoro fatto, ma sopratutto perchè mi sono sentita RICONOSCIUTA in qualcosa. questo bisogno di essere riconosciuta, di sentirmi validata nelle cose che faccio è una cosa che mi porto da quando sono bambina, cose, come se facendo meglio avrei avuto maggiore aprovazione e quindi amore. ecco, sentirmi riconosciuta è un po' come dirmi: tu vai bene, quindi meriti di essere riuconosciuta. tu non vai bene/fai male/ti comporti male col cibo, allora niente riconoscimento, niente amore da parte delle figure a cxi tengo.

in altre parole: riconoscere la mia componente emotiva è un po' come riconoscere me e quindi considerarmi per quella che sono, non per quello che vogliono (e volevano) gli altri io fossi.


e mentre sono qui che cerco di rimuginare sulla giornata, piangendo, emozionandomi, arabiandomi, tardando così il sonno, forse ho capito cosa mi spaventa dell'università: forse sono i giudizi. quei numeri ancora tornano, come se misurassero la mia persona. ma spesso sono le parole, oltre che i numeri, che ti pesano e sopesano, sminuendo il tuo impegno, la tua fatica, il tuo dolore. e magari in quel dolore ci sono le notti in bianco, la fatica di studiare, la salute in bilico per delle abbufate... le stesse che durante gli esami mi distrugevano lo stomaco per via dell'acidità. no, naturalmente chi avevo davanti non poteva sapere: non poteva sapere ciò che stavo vivendo, ma per via delle mie fatiche avevo la sensazione di rendere molto meno di quello che avrei potuto. e poi esistevo io: che non condividevo nulla, che stavo male e basta. all'epoca c'era il cibo che controllava la mia ansia, oggi il cibo c'è molto meno. e allora come posso controllarla quella ansia? come posso controllare tutto questo casino di emozioni che sento dentro, anche nelle giornate più calme?

Questioni di punti vista: non siamo "fragili", siamo umani!

Prima di scrivervi cosa è sucesso e racontarvi come mi sono sentita devo farvi una premessa che ritengo doverosa fare:

chi mi conosce e mi legge sa perfettamente come uso questa pagina pubblica per parlare di me, della mia storia e dei vissuti che questa comporta; ma sopratutto sa quanto per me condividere il mio vissuto sia una forma di battaglia collettiva. Racontare ciò che accade a me, serve anche per parlare delle battaglie di tanti, di molti che possono e si trovano a combattere con le stesse sofferenze con cui ho a che fare anch'io, in quanto ragazza, donn, con delle disabilità sensoriali e con una malattia cronica e rara quale è la Sindrome di Alstrom. Parlarne credo sia stato il mio modo per uscire dall'oscurità e provare a comunicare ciò che mi acade al mondo. In altre parole, molti di voi, sano come questo spazio, il Blog mi ha salvato dai momenti bui che ho afrontato. Momenti che esistono ancora oggi, la differenza che oggi provo a condividere ciò che provo con i professionisti giusti, provando a manifestare le mie opinioni ai diretti interessati. e così è stata anche questa volta: stufa del fatto che nessuno riusciva a leggere queste pagine, ho pensato bene di condividere il mio pensiero, di esprimerlo sia pubblicamente, che ai medici diretti interessati. devo dire che avevo tanti pregiudizi, ma confrontandomi ho trovato anche chi ha provato a capire e sopratutto ad ascoltare: che era quello di cui avevo bisogno da una vita.

Detto ciò, andiamo al dunque della questione: 

come dicevo io ho una sindrome rara, che ad oggi non ha una cura, ma si cercano di tenere sotto controllo le singole patologie legate alla sindrome stessa: fra le varie cose di questa malattia esiste anche il diabete melito. nel mio caso soffro di diabete di tipo 2: probabilmente, ne avrò ancora parlato in questo blog, ma non ricordo.

il punto è che a inizio marzo scopro di essere in attesa: una bella cosa direte voi. purtroppo non sono riuscita a vivermela bene: come l'ho scoperto, dopo qualche giorno scopro di aver subito un aborto spontaneo. nulla di nuovo direte voi: accade spesso, sopratutto nelle donne che ci stano provando per la prima volta. Il problema è che avendo io una patologia come quella diabetica, oviamente ha messo in allarme tutti gli operatori sanitari che in quel momento mi seguivano. anche questo non è stato un problema, quelo che sia io come donna, sia il mio compagno, in quanto parte della coppia, abbiamo percepito come problematico è stato il risvolto psicologico che tutta questa vicenda ha comportato. e posso dire che se i dolori fisici (derivanti dall'aborto spontaneo e dall'attesa che l'utero si ripulisse) sono durati all'incirca 2 settimane, quelli psicologici sono stati ben più pesanti e molto più difficili da accantonare. se poi si aggiunge che nel frattempo stava giungendo il primo anniversario della morte di mio zio, quello che è morto per una grave malattia nel 2023, allora tutto si faceva più complicato e doloroso. il problema è che non condividendo con i propri cari, tutto risultava ancora più pesante e doloroso. posso dire che il senso di solitudine è stato quello che ho percepito magiormente: tutti erano pronti a puntare il dito verso di me e il mio compagno, dicendoci che stavamo facendo un'atto incosciente e senza valutarne i rischi. La verità che noi abbiamo fato ciò che ci sentivamo, seguendo il cuore e la nostra volontà; fa naturalmente questo non è stato compreso. Ancora meno, nel momento in cui invece che sostenerci e incoraggiarci, hanno cercato di fermaci, di dirci che non saremmo stati in grado di farcela da soli. in altre parole, siamo stati considerati da qualcuno "fragili): come se avere una disabilità impedisse di avere delle responsabilità, di fare scelte e pagarne le conseguenze. ma quello che mi ha ferito ancora di più, è sentirsi dire che appunto la società avrebbe considerato la nostra coppia, in presenza di un figlio, come "fragile): come se non vederci o non sentirci ci impedisse di essere "genitori" come gli altri, tanto da dirci che se rintraprenderemo questa scelta dobbiamo costruire non solo una rete medica (che naturalmente era ovio, vista la mia situazione clinica), ma anche sociale, dovendo affidarci ai servizi sociali. Nulla da avere contro gli Assistenti Sociali, ho studiato per questa professione e non ho nulla contro chi fa questa professione: anzi penso che se fossimo a loro carico, avremmo degli aiuti che magari non conosciamo; il punto è che la legge lo richiede nel momento in cui hai una o più disabilità, per valutare se in quanto persone con disabilità, siete in grado di badare lle cure di questa creatura. Capisco se mi trovassi a maltrattare mio figlio, o a farli violenza, o se mancassi ai suoi bisogni, ma avere una o più disabilità non implica non prendersi cura di qualcuno, sopratutto se quest'ultimo è più fragile. Quindi oltre alla sofferenza per aver perso un figlio, alla consapevolezza che pochi, anzi pochissimi possono capirti/capirci, si al fatto che sei solo perchè hai paura di condividere ciò che ti è accaduto per via delle critiche e dei giudizi che chi ti vuole bene può farti, si aggiunge anche il fatto che vieni eticchetato come incapace, meno bravo, meno competente di altri per via della tua sordociecità. Inoltre c'è anche il fatto che hai una patologia poco compensata e ciò significa che portare avanti una gravidanza è contro indicato, come se ciò che si sente nel cuore e nella testa delle persone fosse contr indicato. so di esagerare, ma alla fine, se non mi fosi cercato uno psicoterapeuta per conto mio, ciò a cui si è dato importanza è stato per lo più dal punto di vista medico. capisco la ragione, ma forse anche il dolore che stavamo vivendo come coppia avrebbe dovuto essere considerato, cosa che purtroppo hanno fatto in pochissimi.

come dicevo all'inizio, questa è la mia storia, la mia esperienza, ma credo che non sono l'unica ad avere una disabilità e a trovarmi in una situazione simile; se poi a tutta la mia complessità medica, si aggiunge l'omertà che c'è ancora atorno a questi argomenti, quelli dell'aborto, del lutto e sopratutto del luto perinatale, posso dire che il carico di sofferenza è stato ancora più acentuato.

ripet!, fortunatamente ho trovato più di qualcuno che ha provato a capirmi, ma ho l'impressione che per quanto abbiamo capito i diversi punti di vista, si vada avanti a parlare in linguaggi diversi: noi che vogliamo essere genitori e che avendo avuto una gravidanza, ci sentiamo già famiglia; loro, i medici, che guardano alla complessità medica, ignorando forse, il fatto che q qualcuno ha un desiderio così profondo, sapia fermarsi così facilmente davanti a dei no. Forse si trata di incoscienza, forse di presunzione, ma quello che penso è che forse ciò che sarebbe giusto fare è rispettare la scelta di quella coppia e aiutare perchè quel desiderio possa essere realizzato, per quanto questo possa rendere le cose complesse e difficili da afrontare, perchè come lo si fa con chiunque è importante, anzi fonamentale, farlo anche quando esistono anche delle disabilità: anzi, quest'ultime devono essere viste come punti di forza, non come limiti, cosa che spesso la società continua a pensare. Inoltre, ciò che penso, è che invece che limitare, impedire, forse bisognerebbe costruire strumenti, risorse, che aiutino queste coppie a fare il massimo, invece che considerarle parte debole della società.

forte come la morte è l'amore: in memoria di uno zio speciale!

sempre durante il mio matrimonio ho scritto questa lettera, dove parlavo con mio zio. Anche questo testo è stato emozionante, vivo di ricord...